Il suono dei Tamburi, Carlotta racconta Taranto

Ci sono almeno due motivi per cui non dovrei scrivere la recensione de “Il suono dei Tamburi”. Il primo è che il libro è del 2018, due anni fa, il secondo è che l’autrice, Francesca Salvatore, è una giornalista di questo magazine.
Il libello (118 pagg.), però, cattura, astrae, semina e germoglia riflessioni.

La carica emotiva è potente. Benché non sia un romanzo e, anzi, potrebbe essere un saggio scritto con occhi acuti e anima suscettibilissima, risucchia nel vortice delle vicende dell’età bambina di Carlotta, manifesto alter ego di Francesca. Questo travolgimento, che pur ne indurrebbe la lettura, non sarebbe sufficiente a conferire al libro un peso capace di andare oltre la vicenda sentimental-fanciullesca.

Carlotta, però, ha uno straordinario potere di osservazione. Coglie nel quotidiano frammenti capaci di descrivere realtà complesse. Un po’ come accade con lo scorcio di blu visibile dal suo balcone (il mare piccino) che le apre la visione del mare aperto e immenso.
La famiglia, la città, la società, le crisi, il sud diremmo, colti per pezzetti sono rappresentati con nettezza attraverso il filtro dell’emotività iper-reattiva della bimba.
Peter Hanecke, in una poesia scritta per il film di Wim Wenders “Il cielo sopra Berlino”, scriveva:

Quando il bambino era bambino,
lanciava contro l’albero un bastone come fosse una lancia,
che ancora continua a vibrare.

“Il suono dei Tamburi” è quella lancia che continua a vibrare.

C’è un’ulteriore sfaccettatura a dar rilievo al libro. Carlotta cresce e attraverso le sue esperienze reali e sentimentali racconta i propri turbamenti, i dispiaceri, i piaceri e le esaltazioni.
La nitidezza della scrittura e l’evidente propensione giornalistica fanno strame dell’artificiosità e dell’edulcorazione stereotipata dei racconti scritti con lo sguardo dei bambini. Non c’è spazio qui per i luoghi comuni favolistici. Qui c’è la vita di una bambina con i suoli salti, il suo carattere esuberante ed introverso al contempo, c’è la vita della sua città.

Taranto, a ben vedere, è la coprotagonista del libro perché impregna e orienta la vita di Carlotta/Francesca anche quando cresceranno.
Se ne racconta la dimensione complicata, ammorbata dall’acciaieria, da un inevitabile provincialismo borghese. Arricchita da un’umanità resistente e corroborante, accogliente e fraterna (il nonno, la maestra Damiana, i compagni di scuola) Taranto è lo spazio vitale che Carlotta abita, vive, subisce, accetta, combatte.

E vediamo il vento nero, i contrabbandieri buoni, il cane randagio, amico sornione, sorvegliante del quartiere, varia umanità e divinità delle piccole cose. Vediamo Taranto di cui abbiamo sentito parlare ma che non conosciamo. Entriamo nei Tamburi.

In una certa misura c’è il racconto del Sud coi suoi mali e con suo bene.