Taranto, non semplicemente bella né semplicemente acciaio
Taranto. 270 anni di carcere complessivi inflitti a 26 imputati, dirigenti d’azienda e politici, per i reati di disastro ambientale, avvelenamento di sostanze alimentari, omissione dolosa di cautele sui luoghi di lavoro. Il 31 maggio scorso, la sentenza della Corte di Assise ha chiuso, dopo cinque anni, il processo Ambiente svenduto relativo alle conseguenze devastanti, così si è espressa la pubblica accusa, della gestione dell’acciaieria più grande d’Europa. È la prima sentenza. I condannati hanno annunciato appello. Passeranno ancora anni prima che la verità giudiziaria sarà definita.
Ma Taranto com’è? Dov’è e anche cos’è? C’è un oltre? Oltre la cupezza delle cronache di morte, oltre le polveri e i polmoni scoppiati? Com’è il mostro, lo stabilimento che fonde e fuma, che paga e uccide?
Il mostro è immenso. L’auto lanciata a velocità impiega minuti per superarlo. Pervade una sensazione di nanismo e di silenzio. 15 milioni di metri quadrati, tanto è estesa l’area occupata dall’impianto. Da distanza la sagoma di un pullman stagliata sui capannoni abnormi (254 metri di campata ciascuno, due volte e mezzo un campo di calcio) non è più grande di una formica.
L’immensità delle proporzioni assorbe i rumori, ammutolisce l’intorno. Non si scorgono segni di vita, eppure lì lavorano più di 8mila persone.
A mezzogiorno di un venerdì afosissimo di fine giugno, nemmeno le ciminiere, immoti giavellotti ciclopici proiettati verso il cielo, paiono fumare.
Tamburi, il quartiere in cui le polveri dell’acciaieria si spazzano con la calamita e i bambini non possono giocare nelle aiuole, è, invece, animato come un suk. È il quartiere in cui la mortalità infantile è del 21% superiore alla media regionale (dati ISS). La Fondazione Veronesi (ottobre 2019) ha definito inaccettabile il rischio cancerogeno di quell’area che un tempo, prima del mostro, ancora negli anni ’50 era quasi uno sfogo verde e arioso per i tarantini. Non fiacca la vitalità del luogo la statistica di morte. L’animazione è la medesima di qualsiasi rione popolare del mezzogiorno d’Italia. E questo apre il primo conflitto con l’immaginario alimentato dalle cronache, fatto di mestizia, grigiore, foschia. È solo il primo stridere. Il segno che c’è una Taranto altra.
Il mare sembra accerchiare la città, mentre a vedere la mappa è la città a stringerlo. Un istmo congiunge con due ponti il nord industriale (dove è insediata l’Ilva e si estende Tamburi) dal sud vivente. È la città vecchia, fatta di viuzze strette e vicoli strettissimi. Tante case abbandonate, autenticità, suggestione. Spezza il mare Jonio, grande, che si insinua attraverso due stretti e brevi canali, andando a formare quello che è detto Mar Piccolo, composto da due conche.
Il paradiso degli allevatori di cozze. Se ne producono (almeno ufficialmente) 30mila tonnellate e sono peculiari per dimensione, piccola, e sapore intensissimo ma, in ossimoro gustativo, delicate. Quelle del secondo seno del Mar Piccolo, il bacino più incuneato, non necessitano di purificazione dopo la raccolta. Così lungo la Circummarpiccolo, la via che costeggia il limite occidentale dell’insenatura e pullula di pescatori, alcuni di essi allestiscono banchetti su sui aprono le valve con un coltellaccio simile a un machete per offrire il frutto crudo.
Al culmine di un’area sterrata, una via crucis su colonnine bianche introduce a un altarino su cui è posata una teca con una madonnina, la madonnina dei cozzari.
L’immagine di una Taranto annerita, costruita dallo stratificarsi di cronache, si apre definitivamente quando lo sguardo cade sul lussureggiare della riserva naturale, palude la Vela già oasi del WFF.
Anche l’area antropizzata, la città moderna con le vestigia antiche, tra tutte la chiesa, magnifica, di San Domenico Maggiore, il castello Aragonese e il maestoso Palazzo del Governo fa strame di quel riflesso condizionato ostile, ingenerato dal semplice suono della parola Taranto che in mente si ricompone in Ilva, acciaio, industria pesante.
Taranto, oltre il nero del coke e dei lutti, è anche azzurra e soave come la sensazione di origami restituita dalla Concattedrale, percettibilmente poco amata, progettata da Giò Ponti e realizzata negli anni’50, quelli dei boomer, forse non casualmente prima dell’insediamento dell’acciaieria (1961).
Impregna l’intelletto e l’anima Taranto, città non semplice. Non semplicemente bella nella sua parte migliore né semplicemente brutta in quella peggiore. E come accade inevitabilmente quando ci si accosta a un fenomeno complesso, accanto a immagini in qualche modo iconiche, resta un senso di incompreso, un impulso sordo e monocorde a scoprire ancora, capire di più.