L’Inessenziale e la Cura
La mia è una riflessione inessenziale. Se avete temperamento essenziale, fermatevi qui.
È la cifra di questa perenne emergenza sanitaria, l’attitudine all’essenziale.
Sarebbe interessante, se non fosse inquietante, osservare come l’inessenziale si stia espandendo in modo lento, ma inesorabile, alla stregua d’un buco nero. Ora sta risucchiando persino la scuola, con una certa connivenza, riponendola con l’altra chincaglieria: socialità giovinezza musei teatri cinema palestre viaggi. E indugia appena fuori l’uscio delle nostre case, ad origliarne l’intimità, a vagliare i legami essenziali, i cibi, le parole, gl’incontri, i gesti essenziali.
Tra le menti più fini, il dibattito si accende, feroce e beffardo, su libertà e sicurezza, compromesso e restrizione, vita prudente e nuda vita. Ma l’essenziale è oltre, compulsa modelli previsionali, discetta e sperimenta, e assorbe anche questo dibattito, ritenendolo inessenziale. Probabilmente a ragione.
Non è neanche il caso di fare l’elogio dell’inessenziale. Sarebbe stupido, ingenuo, nonché, per i più, irrispettoso nei confronti dell’essenzialità della morte. Il bollettino, quotidiano ed essenziale, dei morti rende, per gli essenzialisti, inessenziale tutto il resto. L’essenziale è quantificabile, preciso, asettico: è un dato, è un fatto, sta lì, ad ammonirti ch’è il tempo di badare alle cose essenziali, di avere certificazioni e passaporti per ricominciare a vivere vite entro perimetri, spaziali e temporali, finalmente essenziali.
É una nuova categoria dello spirito, più di intersezionale e resilienza. In verità, non proprio nuovissima.
In Hegel, per esempio, la dialettica essenziale-inessenziale, la sua consapevolezza, è un passaggio obbligato nel superamento di quella ch’egli chiama ‘coscienza infelice’: «ciò che fa il servo è propriamente il fare del padrone», il che vuol dire che l’agire del servo non è un operare puro, ma un operare appunto inessenziale. Alla luce di quest’unico significato profondo e corretto, bisognerebbe avere il coraggio di definire le cose le attività e le vite come utili e non utili, o sacrificabili e non sacrificabili. Cose e vite, uguale. Non è solo una questione terminologica, ma un dovere di parresia (Foucault la chiamerebbe così) che comunque il potere deve onorare, per la propria stessa sopravvivenza: esercitare il potere attraverso il dire-il-vero.
Ovviamente, parlare di inutile e sacrificabile sarebbe tremendo e anche problematico, nell’epoca del politically correct globalizzato. Sarebbe davvero troppo. Qualcuno potrebbe chiedersi chi traccia, e secondo quali parametri, questo criterio. Al momento, pare, ci stanno pensando gli algoritmi dei social network. Parlare di essenziale ed inessenziale, invece, edulcora il cinismo, con l’impressione di sconfinare in un territorio sacro, che molti intendono, e assumono, come quello del dovere morale o del senso civico, insomma di un nuovo ethos.
Heidegger dedicò pagine memorabili all’inessenziale, nel suo Essere e Tempo. Lo chiamava il ‘Si’. Il si fa, il si dice, il si vive, il si muore. «In questa irrilevanza e impersonalità – scriveva – il ‘Si’ esercita la sua autentica dittatura». L’espressione è forte, anche paradossale in bocca a un pensatore ritenuto ‘di regime’, ma Heidegger intendeva, con questo, la perdita di autenticità, il livellamento e, nello stesso tempo, l’incapacità a farsi carico veramente degli altri, a comunicare con loro. «Ognuno è gli Altri e nessuno è sé stesso, abbandonato nell’indifferenza del suo essere-assieme».
L’abbaglio più grande del ‘Si’ pandemico è quello di confondere l’etica col prendersi Cura degli altri e di ritenere sé stesso giusto attore (giudice) di tale etica. Questo pregiudizio auto-gratifica i più, li fa sentire essenziali, tanto da trasformarli, oggi, addirittura in delatori dei comportamenti altrui, messi alla gogna come inessenziali.
«L’aver cura – puntualizza tuttavia Heidegger – può in un certo modo sollevare l’altro dalla ‘cura’ sostituendosi a lui nel prendersi cura, intromettendosi al suo posto. […] L’altro in questo modo risulta espulso dal suo posto, retrocesso, […] può essere trasformato in dipendente e in dominato, anche se il predominio è tacito e dissimulato per chi lo subisce. […]
Opposta a questa è la possibilità di aver cura la quale, anziché intromettersi al posto degli altri, li presuppone nel loro poter essere esistentivo, non già per sottrarre loro la cura, ma per inserirli autenticamente in essa».
Siamo nel cuore dell’inessenziale, come lo si intenderebbe oggi. Ma potrebbe suggerire una via di salvezza, spero, un giorno. Perché per sfuggire alla palude nella quale stiamo sprofondando, ci vuole un cambio di paradigma, un ripensamento di ciò che è essenziale davvero e di ciò che non lo è. Di questo sono convinto.
Una sanità, ad esempio, che non si prenda cura, ma che abbia cura delle persone malate, fragili ed esposte. Una politica che non si prenda cura, ma che abbia cura della comunità che ad essa ha affidato la propria vita ed il proprio destino. Una comunità stessa che, oltre a prendersi cura esclusiva del proprio presente, abbia cura, senza intromettersi, delle comunità che verranno.