Gian Maria Volonté, l’attore ribelle
“Io non ho mai ragionato in termini di simpatia o antipatia. Può anche darsi che molti non mi possano vedere. A me non interessa niente, perché non intendo vendere niente” – G. M. Volonté
Sono 26 anni che Gian Maria Volonté, uno degli attori più carismatici, talentuosi e poliedrici del Cinema del Novecento, ci ha lasciati. Morì durante le riprese del film Lo sguardo di Ulisse di Theo Angelopoulos, stroncato da un infarto. La sua parte fu completata da Erland Josephson, e il film venne dedicato alla sua memoria. Da allora, in Italia, si è cercato di volta in volta di attribuire a qualche attore la veste di “erede” dell’interprete milanese, ma nessuno è riuscito davvero ad eguagliare le sue capacità mimetiche e il suo talento nel “rubare l’anima ai personaggi”.
Nato nel 33 a Milano, ma cresciuto a Torino, Volonté ebbe un’infanzia difficile. Figlio di un militare fascista condannato a 30 anni di reclusione per aver favorito un rastrellamento tedesco, abbandonò gli studi a 14 anni per trovare un lavoro che gli permettesse di aiutare economicamente la madre. A 17 anni sbocciò l’amore per il teatro, e qualche anno dopo arrivarono le prime comparsate televisive. Il debutto al cinema invece avvenne nel 1960, quando 27enne partecipò a Sotto dieci bandiere di Duilio Coletti. I fratelli Taviani due anni dopo gli affidarono il primo ruolo da protagonista per Un uomo da bruciare, film di denuncia che raccontava la storia di Salvatore Carnevale, un sindacalista ucciso dalla mafia.
Questi primi lavori gli valsero l’attenzione di Sergio Leone, che lo volle fortemente per il capolavoro western Per un Pugno di dollari, affidandogli il difficile ruolo di Ramòn Rojo, uno spietato killer trafficante di alcolici. La vera notorietà però giunse con Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto dell’indimenticato Elio Petri, con la celebre interpretazione del dirigente di polizia che commette un omicidio e confeziona prove della sua colpevolezza, in un cocktail esplosivo noir-poliziesco-kafkiano. Il film era stato concepito come un’elaborazione del tema della sfida di un assassino alla giustizia, e come una riflessione sui meccanismi psicologici che ci rendono alleati del Potere, facendo di tutti noi dei bambini. Il film riuscì a fare centro anche grazie all’interpretazione magistrale di Volonté che fece incetta di premi, portando a casa un David di Donatello, un Nastro d’Argento e un Globo d’Oro.
Nel 1971 si ripeterà ad alti livelli interpretando l’anarchico Bartolomeo Vanzetti nel bellissimo Sacco e Vanzetti, di Giuliano Montaldo. Il film contribuì sensibilmente alla riabilitazione storica e morale dei due libertari italiani negli Stati Uniti d’America, al punto che il Massachusetts riconobbe, qualche anno dopo, ufficialmente, con una cerimonia pubblica, l’errore giudiziario e il dolo dei magistrati. In quell’occasione il regista Giuliano Montaldo fu invitato alla riabilitazione per aver “contribuito a essa”.
Gli anni 80 dell’attore furono segnati invece dalla memorabile partecipazione a Il caso Moro di Giuseppe Ferrara, in cui interpretò proprio il politico democristiano ucciso dalle Brigate Rosse. Volonté fino alla morte fu sempre un convinto militante di sinistra, e nel 1975 ebbe anche una brevissima esperienza politica nel consiglio regionale del Lazio, da cui si dimise dichiarando “Volevano fare di me un funzionario, un animale politico invischiato nella partitocrazia: io avevo bisogno di ricerca, di critica, di democrazia. Ho capito che stavo perdendo la mia identità e ho scelto il rapporto con me stesso”.