Ai giovani rissaioli del Pincio è stato tolto tutto

Abbiamo consumato tutti gli approcci analitici disponibili nel parlare dei giovani d’oggi. Anche gli approcci retorici ormai scarseggiano. Sono forse troppe le distorsioni prospettiche generazionali che impediscono di capire a fondo, ad esempio, cose come la maxi rissa del Pincio dello scorso week-end. Troppa è la distanza. Troppe le differenze tra le verità giovanili in circolazione e le verità giovanili in circolazione nei decenni passati. Profonde discordanze di valori, si direbbe in retorichese. Disagio, chilate di insormontabile disagio, si direbbe in analitichese new-age.

Un regolamento di conti combinato sui social, con venature protestatarie anti-Covid, sembrerebbe al momento la spiegazione cronachistica più accreditata. Una dinamica che in quest’ultimo biennio rozzo, a cadenza regolare, ha imperversato, come moda, nelle piazze d’Europa. Da Parigi a Roma. Scatenando, almeno in Italia, ma unicamente nei tempi morti dell’informazione, il circo degli scatarratori di moralismo e degli addetti all’empatia. Perché, si sa, questo è un Paese che ha un gran bisogno di espettorare o di coccolare spiritualmente. Soprattutto se si tratta di questioni astratte (o percepite come tali) quali i “giovani”.

E quando a dividersi il discorso mediatico sulla fenomenologia della gioventù moderna rimangono i nostalgici dell’agoghé spartana, che vorrebbero ordine e disciplina per gli orribili sbarbatelli delle periferie dell’esistenza dediti all’ascesi da musica elettronica, e i visionari in pensione, che avvistano nel mestiere del rissaiolo i germi della rivoluzione scoordinata in virtù del loro bagaglio di utopie frustrate, diventa davvero difficile aprire una finestra di intelligibilità degna di questo nome.

Ai giovani generici, forse, qualcosa è rimasto. Ai giovani periferici, invece, è stato tolto tutto. L’aria pulita, il futuro lavorativo, l’importanza emancipativa della cultura, l’alfabetizzazione emotiva, spazi urbani sopportabili. In cambio di un’ideologia del consumo che si propone come unico orizzonte degli eventi possibile.

Essi hanno solo l’oggi a disposizione, un oggi da spolpare. Nell’attesa delle prime rate dell’apocalisse di cui annusano le avvisaglie. Nell’attesa di diventare ingranaggi, di perdersi, di sbancare o nell’impazienza, non frequente, di cambiare il corso delle cose, a partire dalle idiote generalizzazioni sul loro conto.

Gli hanno insegnato a confondere arrivismo e ribellione (vedi la Trap), a non discernere tra l’approvazione del mercato e la qualità del fare (vedi gli influencer). Gli hanno insegnato che l’unico accesso alla realtà contemplabile deve essere pratico, conformisticamente pratico, e non teorico. Gli hanno insegnato a non avere risorse interiori, a diffidare dell’interiorità, a rendersi incomprensibili, veicolando l’idea della comprensione non utilitaristica delle cose come perdita di tempo.

Gli hanno insegnato a non considerarsi come agenti sociali responsabili, ma come veicoli di una crescita economica cieca, giustamente cieca, a qualsiasi forma di ridistribuzione della ricchezza. Gli hanno insegnato la metafisica del benessere, l’inesorabilità delle isole di plastica, il primato della virtualità, dell’apparire per essere, dell’assediare gli altrui spazi virtuali per scalare gradini ontologici.

E adesso puntano il dito contro le maxi risse in diretta smartphone e si meravigliano dell’emergere di un’aggressività inopportuna, opaca, ritualizzata, barbarica, insensata, non mascherinata (aggiungono), indecifrabile, pronta a fare incetta di followers. Come se l’inquinamento di quelle giovani teste non fosse affar loro.