Violenza sessuale: cosa insegna il caso Massari
Rimarcando sensibilmente il momento risocializzante del trattamento sanzionatorio in luogo di quello repressivo, la legge entrata in vigore la scorsa estate e ribattezzata “Codice Rosso” ha introdotto una modifica del codice penale che subordina la concessione della sospensione condizionale della pena prevista per i delitti di violenza domestica e di genere alla partecipazione a specifici percorsi di recupero.
Di tanto si è avvalso il giornalista ed ex assessore all’Ambiente della Giunta Moratti del Comune di Milano, Paolo Massari che ha ammesso il reato di violenza sessuale nei confronti di una sua amica e ha patteggiato la pena di due anni, condizionata ad un percorso psicoterapia.
La vicenda risale a giugno scorso quando il Massari ha violentato e pestato, nel garage del suo loft, la vittima, una sua ex compagna di scuola, la quale riusciva a scappare senza abiti in strada, dove è stata soccorsa mentre chiedeva aiuto.
«Venire uccisa: è stato questo il pensiero che avevo», racconterà qualche giorno dopo sulle pagine del Corriere della Sera.
Rinviato a giudizio dalla GIP Lidia Castellucci su istanza delle PM Alessia Menegazzio e Maria Letizia Mannella, l’ex assessore ha ammesso gli addebiti e optato per lo svolgimento del procedimento a porte chiuse. All’esito del patteggiamento, accolto dalla giudice Tiziana Gueli, è stato condannato a due anni di reclusione, beneficiando di uno sconto per aver scelto il rito abbreviato.
I giudici hanno disposto la sospensione della pena subordinatamente all’avvio di percorso terapeutico che supporti Massari a «recuperare consapevolezza delle proprie compulsioni e una dimensione sana nel rapporto con le donne, il tutto finalizzato anche a ridurre i rischi di recidiva». Questo col placet della procuratrice responsabile del Dipartimento “fasce deboli” che ha valutato la pena patteggiata «adeguata al fatto concreto e anche al comportamento processuale corretto dell’imputato».
Il giornalista, sospeso dall’Albo e dall’Azienda Mediaset per cui lavorava, è ora in libertà.
La valutazione di base dei giudici, condivisibile laddove stimola la riflessione del reo circa il disvalore delle sue condotte, è meno condivisibile rispetto alle tempistiche e alle modalità.
La durata dei percorsi terapeutici mirati a risolvere problematiche legate a violenza di genere è spesso lunga o comunque superiore ai due anni.
La previsione di uno specifico percorso di terapia per il recupero sociale del giornalista avrebbe potuto essere quanto meno concomitante alla durata della sospensione della pena. Questa, infatti, può essere sospesa per cinque anni per condanne che non superino i due anni di detenzione. Prevedendo un percorso con una durata inferiore, si consente al colpevole di sottrarsi alla misura detentiva per partecipare a percorsi riabilitativi che per la relativa brevità non potranno assicurare la loro efficacia.
Pur senza sposare istanze giustizialiste, non è condivisibile questo eccessivo garantismo. Sarebbe ipocrita, del resto, assumere la certezza che un colpevole di violenza sessuale, lasciato libero, non torni a commettere abusi e che questo non possa succedere anche durante il percorso terapeutico o all’esito dello stesso, qualora risultasse incompiuto.
Le larghe maglie legislative concedono che la durata della terapia venga stabilita in sentenza dal giudice, ma soluzione diversa e migliore sarebbe stato prevedere già legislativamente l’obbligo terapeutico quale pena complementare, sul modello francese, aggiuntiva a quella principale detentiva. L’obbligo terapeutico avrebbe avuto così lo scopo di prevenire la recidiva e di continuare a seguire l’autore di un reato a carattere sessuale al termine della detenzione. E questo anche in considerazione del fatto che, molto spesso, chi commette abusi sessuali per i quali viene denunciato, li ha già compiuti in passato senza che venisse dato loro seguito, come successo con lo stesso Massari.
Durante le indagini preliminari, infatti, la procura ha accolto testimonianze di almeno sette donne che avevano raccontato di essere state vittime delle violenze da parte del giornalista e, anche se nessuna di loro ha poi sporto formale querela, anche per decorrenza dei termini di proposizione, questo sarebbe potuto essere oggetto di un giudizio ai fini di pericolosità sociale.
Bisognerebbe, pertanto, evitare l’automatismo di applicazione della sospensione condizionale della pena ogni volta che vengano rispettati tutti gli obblighi previsti per la sua concessione e questo anche per evitare conseguenze discriminatorie e rischiose.
La legge “Codice rosso” ha previsto che gli oneri derivanti dalla partecipazione a percorsi terapeutici fossero a carico del condannato. Con la conseguenza discriminatoria che l’imputato abbiente può accedere a questa pena condizionata e quello non abbiente dovrà invece scontare la pena in carcere.
Con l’ulteriore rischio che la possibilità di una pena sospesa non rappresenti un deterrente efficace. Il danno economico e il pagamento del percorso terapeutico, per chi può permetterselo, diventerebbe essere un “rischio” calcolato, supportato anche da un’adeguata strategia difensiva.