Morti gli Squallor
Morti gli Squallor
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Sembra il titolo di un film di cattivo gusto. Che un cane li abbia in gloria!
Forse le ultime generazioni non sanno chi sono stati o, se qualcuno più tardo ha fatto ascoltare qualcosa, magari “a chi lo do stasera”, saranno parsi pecorecci che potevano far ridere solo gli italiani ingenui di qualche anno fa. In fondo è il destino di chi riesce a raggiungere anche il pubblico più minuto, la scure della scurrilità, il contrappasso di una labile memoria, marcata da un sorriso bonario e da un segno x sulla propria figurina.
Erano quattro o cinque uomini in una Milano già non più quella raccontata da Gaber o Jannacci della loro infanzia ma una città moderna, dedicata al commercio in cui consegnare le proprie competenze da mercato, senza riuscire a lasciar fuori bagaglio quella riottosità che si matura “quando non si è avuto la sciagura di essere nati in [una simile] città” (Carmelo Bene in Sono Apparso alla Madonna).
Il mio paese era lontano in un pezzetto di provincia
E non me lo ricordo mica
La nostra meta era Milano spinti da una fame antica, di notti luci e un po’ di fica
Era l’autunno del ’68 quasi vent’anni a cazzo dritto.
Eccoli quindi a creare prodotti per l’industria discografica, dalla mattina alla sera, provinare cantanti da Sanremo, trasformare un ritornello in una hit estiva, inserire nelle melodie testi iconici per l’amore nazional-popolare; poi la sera mandare via tutti, ordinare casse di alcolici e distruggere quel che s’era tessuto di giorno.
Erano il virus e il vaccino, il veleno e l’antidoto.
Quando il sole calava, tutta la costruzione e la macchina ben oliata andavano smontate, anzi sabotate. Ma prima di tutto boicottavano la loro vita produttiva e tutto quell’ambaradan ideologico dietro parole abusate come “lavoro”, “competitività”, “competenze”, “incarico”, “analisi” e tutti i termini tecnico-anglofoni che ormai oggi sono il diktat mediatico culturale.
Se negli anni ’60 la ribellione s’era vestita di nudità, slogan per strada, manifestazioni e molotov, per tradirsi nel nuovo potere conformista, nel boom degli anni ’80 non si poteva che sovvertire di nascosto, sotto il tavolo, in cantina.
Le audiocassette degli Squallor, gruppo senza volto, venivano vendute, anzi stra-vendute, sottobanco o nel reparto per adulti, prese quasi di nascosto negli ultimi anfratti dell’autogrill.
Anni dopo, con l’avvento di internet, sarebbe stato il filosofo Gianfranco Marziano a riprenderne i motivi libertari trovando nuove vie non ufficiali, quali Napster, per veicolare un diverso linguaggio.
Ed è proprio nel linguaggio che gli Squallor furono artisti, sin dal primo brano 38 luglio, in cui quel dandy di una Milano da bere, Daniele Pace, lasciava libero un flusso di incoscienza, tra il surrealismo ed il non-sense, con una confusione dei generi sessuali, che saranno poi poetica di tutti i non-prodotti futuri. Quando è con la decostruzione del linguaggio, ed il più facile fascino della mala parola in un Italia tardo democristiana, che arrivi a tutti, non puoi non essere un artista, un poeta.
Le maleparole
Erano spesso le più facili, quelle che ogni italiano avrebbe voluto ruttare in ogni momento, sostituite poi da un “mi spiace” o un “perbacco”; queste le più liberatorie e volgari. Poi c’erano quelle divine, completamente gratuite, come la chiosa “allisciame ‘stu ‘bbebbé” nel capolavoro Cornutone. Perché la bestemmia è canto se non è nascosta o ingiuria a Qualcuno, ma in-vocazione al Nulla, estetica del lancio: non se se il più bello dei mari è quello che navigammo o se se i nostri giorni più belli li abbiamo già vissuti ma di certo la più bella delle bestemmie è quella che dicemmo.
Inutile dire del lato satirico degli Squallor, è nel linguaggio la loro sommossa. Ed è una sovversione di vita: c’è più amore nel sacco a pelo che la cambiale dei ricordi fa riecheggiare nel quarantenne di Mi ha rovinato il ‘68 che in tutta la produzione diurna per i cantanti di Stato.
Poi, come disse Alfredo Cerruti, finì il divino amore. Non quello degli amici suoi, purtroppo presto o meno scomparsi da questo mondo, quanto quello con la società.
L’apparir della sua voce nelle trasmissioni arboriane è solo un’ombra, pure sbiadita, di quella vecchia alterità posta al centro del potere.
E ora che anche lui è morto, ora che i tempi avrebbero bisogno di voci fuori dal moralismo imperante, ma proprio per questo inimmaginabili:
Viva gli Squallor!