Il Torino, pena della Serie A, e il razzismo dei cartoni
C’è un football minore in Serie A e non se ne parla.
Non è quello delle provinciali dei ricchi padroni, industriali o industrialotti semisconosciuti ai più, cristalline manifestazioni del genio italico. Altresì meritorie sacche di resistenza sovranista all’avanzata di avventurieri e corsari di stato del capitalismo internazionale.
No, il football inferiore della Serie A si annida in una metropoli industriale e aristocratica. Attanaglia la squadra della città di Torino, che fu il grande Torino e che oggi è il misero Torino. Era Mazzola, oggi è Rincon. Potrebbe bastare questo.
Per capire bene, però, occorre scrutare, l‘espressione del trainer Giampaolo dopo la incresciosa sconfitta casalinga con l’Atalanta. La barba ingrigita e disordinata, lo sguardo liquido e rassegnato, le gote appese e addirittura una certa incurvatura in avanti ora delle spalle ora del collo, quasi un abbandono.
L’uomo, che dev’essere un pensatore (di football), fu già bastonato dal Milan che gli affibbiò Paqueta e Piatek, pretesi campioni pretenziosi. Oggi smistati come pacchi quali erano.
Urbano Cairo, editore del primo quotidiano d’Italia e di tanto altro, già commesso viaggiatore di Silvio Berlusconi, ha le serrature della valigetta, stemma del Toro stampigliato a secco, ossidate. Non compra e non vende, se non giocatori di paglia, semirotti.
Il Torino gioca con lo stesso undici da almeno un lustro. Quest’anno ha preso un paio di terzini di belle promesse. Uno si è infortunato prima della prima e il sostituto, Murru, ha esordito con un bel 4,5 in pagella. Incoraggiante.
A dispetto delle sveltezza imprenditoriale del suo Presidente, il Toro è una squadra smorta, lenta e mediocre, inferiore al proprio blasone. Macina allenatori, ma continua a giocare con Rincon a centrocampo e si aggira pericolosamente in zona salvezza. Lo stesso Belotti, il bomber con la gobba, ne paga pegno, fa fatica ed è ai margini del giro della nazionale. Immobile ha dietro Luis Alberto e Milinkovic. A Belotti dovrebbero arrivare assist dal predetto venezuelano (non si ha notizia di pedatori venezuelani artisti del football).
Nessuno lo dice, forse perché Cairo è potente e magari un giorno ce lo si potrebbe ritrovare come datore di lavoro, ma il Torino è la pena della Serie A.
Lotta al razzismo di cartone
Basterebbe come notizia la scoperta dell’esistenza, in seno alla Presidenza del Consiglio, dell’UNAR, acronimo di, udite udite, Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali. Codesto ufficio, con organigramma di 16 persone, evidentemente cieche, ha istituito a luglio scorso l’Osservatorio contro le discriminazioni nello sport. Una pletora di soggetti, insomma, vigilano e osservano i fenomeni di razzismo. E poi dice che i parlamentari erano troppi, mah.
Ma torniamo al football, l’UNAR e il suo novello osservatorio hanno lanciato la campagna Keep Racism Out “per garantire la parità di trattamento e la tutela dei diritti umani nel calcio. Una partita da giocare tutti insieme per tenere il razzismo lontano dagli stadi“.
Non ci eravamo accorti che tra i tifosi cartonati e tra quelli virtuali degli stadi, vuoti di tifosi vivi, dell’era COVID ci fossero dei facinorosi razzisti.
Forse ci sono. Li avrà messi lì, in un eccesso di zelo, chi ha voluto ricreare il clima torbido degli stadi italiani pre-covid. Attendiamo scontri a sprangate virtuali.
Ad ogni modo, sottoponiamo al Presidente Conte (Giuseppe o Giuseppi, che dir si voglia) l’istanza per creare un osservatorio che faccia osservare all’osservatorio dell’Unar che gli stadi sono chiusi al pubblico reale.