Crisi del turismo: le città d’arte sono in ginocchio
Gli effetti del coronavirus sul comparto turistico saranno devastanti. Soprattutto in Italia, quinto paese al mondo per visitatori. Un piazzamento che in tempo di pace vale il 13% del Pil, includendo anche l’indotto, e che comporta un ritorno occupazionale stimato intorno al 6% dell’occupazione complessiva, circa tre milioni di lavoratori. Numeri che, al netto della presumibile frenata su scala planetaria degli spostamenti, dovrebbero far scattare l’allarme rosso.
Secondo le previsioni più accreditate, il crollo del fatturato del turismo potrebbe addirittura aggirarsi intorno al 73%. Non a caso, interi territori che guardano ai vacanzieri come principale, se non unica, risorsa economica, in assenza di un sostegno politico all’altezza e in vista di una problematica stagione estiva, già fanno incetta di disperate proteste aventi tra i protagonisti piccoli operatori del settore e commercianti.
Le città d’arte sono in ginocchio. Firenze e Venezia appaiono spettrali, metafisiche. Svuotate come furono dei loro abitanti, turistificate fino allo strangolamento, si riscoprono ora in balia di complicatissimi silenzi. Si riscoprono igienizzate dal gran fracasso, da quel gigantesco droplet sonoro fatto di clic fotografici, ciacchettii infraditici, sfregamenti cartacei post-paninici e altre eventuali onomatopee turistico-consumistiche di cui si credevano ostaggio perpetuo in perpetua simbiosi.
Si riscoprono, di fatto, nude, in balia di loro stesse. Dopo aver puntato forse troppo sul proprio inossidabile incanto. Dopo aver consegnato monumenti alle bizze degli archistar. Dopo aver anteposto inutili e costosissime megacostruzioni (vedi il Mose) alla manutenzione ordinaria. Dopo essersi piegate agli speculatori dell’immobile. Dopo aver aperto le braccia alle gigantesche navi crocieristiche. Dopo aver consentito che si sforacchiassero affreschi per favorire perverse brandizzazioni. Dopo aver accettato il briatorismo come bussola delle cose ultime. Dopo aver permesso, in fine, a un focolaio di pistolotti messianico-moralistici di scorgere nel virus una “grande opportunità di riscatto”: focolaio pronto a spegnersi con l’arrivo dell’ennesima palingenesi mancata e a ripresentarsi puntualissimo con l’approdo della prossima catastrofe, foriera, come solo le catastrofi sanno essere, di nuove lezioni da ignorare.
E se l’imminente futuro odora di incertezza, il futuro remoto odora di incertezza estrema. E per futuro remoto, purtroppo, si intende settembre. Perché la pandemia ha avuto anche il potere di rimodulare la percezione del tempo. Costringendo a una navigazione a vista che, per quota di imprevedibilità, ha reso lontane date ravvicinatissime. Difficile, infatti, al momento, stabilire le tempistiche della ripresa. Con le abitudini dei viaggiatori che potrebbero cambiare, anche sul lungo termine, malgrado il chiodo fisso collettivo del ritorno alla normalità, condizionando drammaticamente l’esistenza di chi, per sostentarsi, da tali abitudini dipende.
Nel mentre, si studiano, si fa per dire, le possibili soluzioni. Nardella, vulcanico sindaco di Firenze, città tra le più sature di strutture ricettive nel mondo, lancerà iniziative per promuovere il turismo slow e si imbatterà in un tour internazionale, con prima tappa a Pechino, alla ricerca di fondi privati che aiutino a scongiurare il dissesto finanziario del capoluogo toscano. A Venezia e a Roma non sono convinti di questa iniziativa. I rispettivi sindaci ritengono che aprire un canale privilegiato con la Cina significherebbe minare i rapporti con altri potenziali stakeholder. Potenziali, appunto.
Più in generale, si fatica a cogliere la traccia di una regia, di un coordinamento strategico tra le varie realtà territoriali a rischio. E l’idea che pezzi significativi del nostro strombazzatissimo patrimonio culturale saranno svenduti, presto o tardi, a qualche investitore straniero a caccia di occasioni, come avvenuto in Grecia ai tempi della troika, comincia a farsi strada.
Forse, dopo decenni di infeconde orge intellettuali, di equipollenza tra proposta culturale e turistificio e di turistificio inteso, soprattutto al Sud, come unico motore dell’economia (laddove latitano forme, anche minime, di pianificazione economica), era davvero inevitabile pagare il conto. Il virus è stato solo un acceleratore.