In Italia l’utopia diventa velleitarismo, ci disse Guicciardini

Sette anni fa l’editore Carocci di Roma pubblica una nuova edizione dei Ricordi di Francesco Guicciardini. Introduzione e commento di Carlo Varotti. 

E’ un bellissimo libro, le note sono curatissime, il testo è il risultato di una lunga e attenta analisi filologica. Un indice analitico di nomi e argomenti avrebbe reso ancora più utile l’edizione, ma i commenti sono puntuali, articolati e preziosissimi. Non è, però, sui Ricordi guicciardiniani  che qui voglio riflettere. Bensì sul loro carattere di disincantato resoconto della realtà politica italiana.

Apparentemente Guicciardini, a differenza di Machiavelli, non ha grandi ideali da perseguire, non si propone la costruzione di una grande monarchia, forte come quelle spagnola, francese e inglese, che unisca sotto il suo potere la penisola italiana. Sa che è impossibile. Ci si dispera, ci si angoscia, ma non si prefigge di realizzarla, perché la realtà politica del tempo lo impedisce. I suoi pensieri dunque non aspirano a una visione generale delle cose, sa che la realtà sfugge alle regole universali. E Guicciardini si attiene dunque alle singole situazioni particolari. 

Ha ragione e torto a un tempo. Ha ragione perché veramente la situazione italiana di allora non permetteva di farsi nessuna illusione su un cambiamento di direzione della politica degli Stati. Né i singoli Stati avevano la forza di opporsi all’espansionismo delle monarchie europee. Ha torto, anche se solo in parte, perché non affonda l’analisi nelle cause di questa situazione. Si accontenta di registrarne la realtà effettiva e non si lancia nell’utopia di sollecitarne un mutamento.

L’utopia è teoria, e pertanto è inaffidabile, la realtà è governata dalla pratica, ed è ciò che bisogna seguire. Machiavelli, tuttavia, da parte sua, non insegue affatto un’utopia, bensì aspira solo, da teorico della politica, a ricavare regole di comportamento, dallo studio della storia e della politica. Ma qui sta l’imbroglio, o, se volete, l’intrico, nel quale l’Italia è ancora oggi impigliata: il rifiuto di regole generali più che confutazione di un modo sbagliato di analizzare la realtà è, già in Guicciardini, paura del rischio in cui si cadrebbe se la si volesse modificare o anche solo se si tentasse di modificarla.

Si pensi solo alle reazioni degli italiani nei confronti della Rivoluzione Francese e delle sue novità legislative. Dall’equilibrio tra gli Stati, instaurato da Lorenzo de’ Medici, nel secolo XV, all’immobilismo della politica attuale, nel secolo XXI, il percorso è uniforme, coerente, sempre lo stesso. Ed è qui che Guicciardini è grande maestro. Nel ritrarre appunto questo immobilismo. Il suo è un pessimismo politico, più che filosofico, o di analisi psicologica, come è in Montaigne, in La Rochefoucauld. 

Eppure Guicciardini ha ragione su un punto. Che l’utopia, negli italiani, più che elaborazione teorica di una dottrina politica, è spesso invece solo velleitarismo, ed è, a differenza del pensiero apparentemente utopistico (ma in realtà lucidamente politico) di Machiavelli, sradicato da qualsiasi analisi della realtà concreta, che non sia l’osservazione del proprio “particulare”, e dunque è destinato immancabilmente a fallire. Sorge a questo punto una domanda, dai risvolti politici non tanto lontani: che fare?

Ecco, di seguito, alcuni ricordi, tratti tutti della seconda parte. Si commentano da soli. E non mancano di suscitare riflessioni anche sull’oggi. Spero, comunque, che la lettura di questi pochi singoli Ricordi invogli il lettore a leggere l’intera raccolta. Una lettura molto istruttiva. Alla quale affiancherei, appunto, quella dei Saggi di Montaigne e delle Massime di La Rochefoucauld. I testi si trovano facilmente in rete, sia in francese sia tradotti in italiano.

1. Quello che dicono le persone spirituali che chi ha fede conduce cose grandi; e come dice lo Evangelo, chi ha fede può comandare a’ monti ecc., procede perché la fede fa ostinazione. Fede non è altro che credere con opinione ferma, e quasi certezza le cose che non sono ragionevole; o, se sono ragionevole, crederle con piú resoluzione che non persuadono le ragione. Chi adunque ha fede diventa ostinato in quello che crede, e procede al cammino suo intrepido e resoluto, sprezzando le difficultá e pericoli, e mettendosi a sopportare ogni estremitá. Donde nasce che essendo le cose del mondo sottoposte a mille casi e accidenti, può nascere per molti versi nella lunghezza del tempo aiuto insperato a chi ha perseverato nella ostinazione; la quale essendo causata dalla fede, si dice meritamente: chi ha fede ecc. Esemplo a’ dí nostri ne è grandissimo questa ostinazione de’ Fiorentini, che essendosi contro a ogni ragione del mondo messi a aspettare la guerra del papa ed imperadore, sanza speranza di alcuno soccorso di altri, disuniti e con mille difficultá, hanno sostenuto in sulle mura giá sette mesi gli eserciti, e’ quali non si sarebbe creduto che avessino sostenuto sette dí; e condotte le cose in luogo che se vincessino, nessuno piú se ne maraviglierebbe, dove prima da tutti erano giudicati perduti; e questa ostinazione ha causata in gran parte la fede di non potere perire secondo le predizioni di Fra Ieronimo da Ferrara.

6. È grande errore parlare delle cose del mondo indistintamente e assolutamente, e per dire cosí, per regola; perché quasi tutte hanno distinzione ed eccezione per la varietá delle circunstanzie, in le quali non si possono fermare con una medesima misura; e queste distinzione ed eccezione non si truovano scritte in su’ libri, ma bisogna le insegni la discrezione.

23. Le cose future sono tanto fallace e sottoposte a tanti accidenti, che el piú delle volte coloro ancora che sono bene savi se ne ingannano; e chi notassi e’ giudíci loro, massime ne’ particulari delle cose, perché ne’ generali piú spesso s’appongono, sarebbe in questo poca differenzia da loro agli altri che sono tenuti manco savi. Però lasciare uno bene presente per paura di uno male futuro è el piú delle volte pazzia, quando el male non sia molto certo o propinquo, o molto grande a comparazione del bene; altrimenti bene spesso per paura di una cosa che poi riesce vana, ti perdi el bene che tu potevi avere.

28. Io non so a chi dispiaccia piú che a me la ambizione, la avarizia e le mollizie de’ preti; sí perché ognuno di questi vizi in sé è odioso, sí perché ciascuno e tutti insieme si convengono poco a chi fa professione di vita dipendente da Dio; e ancora perché sono vizi sí contrari che non possono stare insieme se non in uno subietto molto strano. Nondimeno el grado che ho avuto con piú pontefici, m’ha necessitato a amare per el particulare mio la grandezza loro; e se non fussi questo rispetto, arei amato Martino Luther quanto me medesimo, non per liberarmi dalle legge indotte dalla religione cristiana nel modo che è interpretata e intesa communemente, ma per vedere ridurre questa caterva di scelerati a’ termini debiti, cioè a restare o sanza vizi o sanza autoritá.

41. Se gli uomini fussino buoni o prudenti, chi è preposto a altri legittimamente arebbe a usare piú la dolcezza che la severitá; ma essendo la piú parte o poco buoni o poco prudenti, bisogna fondarsi piú in sulla severitá e chi la intende altrimenti, si inganna. Confesso bene che chi potessi mescolare e condire bene l’una con l’altra, farebbe quello ammirabile concento e quella armonia della quale nessuna è piú suave; ma sono grazie che a pochi el cielo largo destina, e forse a nessuno.

176. Pregate Dio sempre di trovarvi dove si vince, perché vi è data laude di quelle cose ancora di che non avete parte alcuna; come per el contrario chi si truova dove si perde, è imputato di infinite cose delle quali è inculpabilissimo.