Ridere del corpo degli altri
La storia del pensiero occidentale nasce con un atto di bullismo. Perso nelle proprie meditazioni, Talete cadde in un pozzo. Una servetta trace (graziosa e intelligente, precisa Platone) ne derise la maldestrezza. Questo sospetto di idiozia reciproca, tra l’indagine sul senso della vita e il suo pragmatismo, divenne da allora una costante. Laddove idiótes, per i Greci, era colui che preferiva il proprio egoismo privato alla comunità degli uomini.
Socrate subì body shaming: occhi a palla, labbra turgide, corpulento e peloso, somigliava, com’egli stesso ammetteva, a un Sileno, divinità minore e animalesca. Platone ci teneva a ripetere che dietro tale mancanza di grazia fisica si nascondeva profonda grazia di pensiero. I commediografi dell’epoca non insistevano però sulla sua bruttezza, ma lo denigravano come tuttologo di banalità, parolaio e ladro, rinfacciandogli di essere, lui stesso, un ‘sofista’.
Socrate, nella propria Apologia, tra le righe confessò la difficoltà di battere un nemico come Aristofane. Non per le accuse in sé (impugnabili sul piano del pensiero, dove Socrate era davvero forte), ma perché Aristofane era riuscito a renderlo ridicolo, e così a screditarlo. Anche Socrate, beninteso, ridicolizzava gli interlocutori, ma sul piano dialogico, in modo più complicato; poi li aiutava nella ricerca del vero, e quindi il ridicolo diventava ironia, e tuttavia senza perdere l’aggressività e un certo gusto per l’umiliazione, volendola dire tutta.
Le Nuvole sono immortali quanto l’Apologia, eppure deridono un avversario politico, che fu ucciso perché la democrazia ateniese, alla fine dei conti, la pensò proprio come Aristofane.
Il ridere degli altri è spesso un’azione ruffiana e se incontra una platea, a prescindere da verità giustizia o ingratitudine, ha vinto. Perché il riso è un gesto sociale, si amplifica come una eco, e prende di mira comportamenti, distrazioni e caratteri esclusivamente umani. Si ride degli esseri umani, non delle cose; a volte degli animali, ma solo quando ci ricordano situazioni umane.
Il riso cerca il consenso, l’ammiccamento, se ne nutre, per perpetuare sé stesso. Questo conclude Bergson, nel suo celebre trattato sul Riso. Il ridere è un’attività misteriosa, che si muove quando va bene tra intelligenza e intuizione, quando va male pesca negli istinti peggiori: in entrambi i casi, nasce spontaneo e condiviso, sigilla la rottura di uno schema, di un equilibrio, si aggrappa all’inaspettato, al diverso. Ma avendo come oggetto i fatti umani, e quindi gli esseri umani, spesso li umilia. Al punto che non ha risparmiato neanche Dio, fatto uomo, nel mondo occidentale. I soldati incoronarono Cristo e lo esposero al pubblico ludibrio. Che ci fu.
Il riso uccide la paura, e senza la paura non ci può essere la fede, fa dire Eco al bibliotecario Jorge da Burgos, nel Nome della Rosa. Jorge, per nascondere un libro di Aristotele sulla Commedia, diventerà assassino di confratelli colti e curiosi. Il riso deforma il viso, si lamenta Jorge: il riso umilia anche la fede.
Ma è sempre smascheramento, il riso? O finisce col coprire di una maschera ulteriore l’avversario? E perché sente la necessità, così umana, di deridere, di umiliare il corpo degli altri?
Forattini bersagliava il presunto micropene di un lardoso Spadolini, o la gibbosità miope di Andreotti, rivendicando (parole sue) l’unico ‘intento di far sorridere’ (i lettori benpensanti non ridono, sorridono), reinserendo il vip (l’idiótes) in un ‘normale’ contesto sociale, dove la prima, più importante diversità è quella corporea. Quando però un intervistatore gli fece notare come mai ‘non disegnasse volentieri le donne’, Forattini se ne uscì con una risposta all’apparenza galante, ma irretita nel politically correct: ‘Sono restìo a farlo, perché le donne sono comunque belle e quindi è difficile disegnarle in termini caricaturistici, deformarle’.
Insomma, il politically correct sancisce chi può essere ‘shamizzato’, e chi no. Le donne no. Anche se, stando al parere di sociologi e di psicologi, proprio le donne sarebbero le più ‘esperte’ in body shaming. Così, ad esempio, certe allusioni, anche molto pesanti rivolte alle pari genere ma di parte avversa sono tollerate e condivise con gusto (lo shaming di Zalone è ritenuto addirittura geniale).
Il politically correct ragiona così. E oggi ha deciso di difendere la Botteri, che ringrazia, ma rivendica con orgoglio la propria sciatteria, che è un compromesso (dice) con una personale e forte etica del lavoro. La Botteri ha lo spirito americano dentro, oramai, e il suo presentarsi da Fazio con la giacca più che una ripicca alla Hunziker (la quale spesso, invece, è shamizzata per la propria bellezza), è uno schiaffo al perbenismo imperante: la giacca è degna di una trovata alla Woody Allen.
La Botteri sa, anche, che nell’Italia di oggi la bellezza è sospetta, e che è impossibile convivano bellezza e bravura. Ma, anche qui, generalmente, solo se si tratta di donne. Nei maschi, la bellezza pare decisamente essere valutata, dal politically correct, come un valore aggiunto (Pedro Sánchez, Conte, De Magistris, Di Battista), mentre la peculiarità fisica come un’aggravante politica (i capelli di Boris Johnson, in questa quarantena, hanno suscitato matte risate anche nell’intellighenzia più bacchettona). L’ ‘inchiavabilità’ (citazione brutta, lo so) della Merkel pare aumentarne la caratura politica, mentre la Carfagna, la Boschi, la Madia… il politically correct, così lombrosiano, sulla bellezza femminile engagé annusa quasi sempre puzza di bruciato. Anche se, ultimamente, c’è stata a mio avviso una eccezione eclatante: Michela Murgia, per i suoi giudizi su Battiato, è stata vittima di eruditissimo (?) ‘psico shaming’ da sinistra (attentissima a non cadere in allusioni corporee), che ha integrato alla perfezione il body shaming (solo da destra?) di cui è già vittima la scrittrice, con forza eguale e contraria.
E pensare che, nella classicità, la bellezza era virtù somma, e s’armonizzava con la giustizia e il bene nell’agathon, mentre anima e corpo erano unica cosa (perfetta) nel sinolo aristotelico. L’interesse per la deformazione dei corpi, ma anche il ridere dei corpi, si origina essenzialmente nel Rinascimento, ci informano gli studi storici, come contraltare all’uomo vitruviano; e come ogni fatto storico evolve.
Il web ha rotto gli argini del body shaming (dello shaming in genere), come di tanti altri pessimi comportamenti umani, e l’uso (ad esempio) dei meme lo esaspera (li adoro proprio per questo).
Eppure, ci sono momenti, occasioni, luoghi, in cui non si riesce a ridere dei corpi degli altri, delle loro imperfezioni e addirittura delle loro deformità. Penso al Frankenstein di Mary Shelley o al Quasimodo di Victor Hugo. Ma soprattutto ai corpi decostruiti e riassemblati di Picasso, alle sagome e ai volti emaciati di Schiele, alle figure allungate e fluttuanti di Chagall. Nessuno, credo, si sognerebbe di chiamare cinghialone le donne di Botero. C’è un luogo eletto dove la disarmonia e l’imperfezione non suscitano riso, ma perplessità, rispetto e un sottile disagio, che assomiglia molto da vicino al pensiero.