Fase due: l’Italia deve ripartire, la Lombardia non può
Sta per aver inizio la delicatissima fase due. Arco temporale dagli imprecisati confini in cui bisognerà convivere con il virus. Ovviamente, escludendo a rigor di logica l’ipotesi dell’incendio abitabile, affinché la convivenza con il patogeno possa sussistere senza pericolosi ritorni di fiamma è necessario che i fuochi, anzi i focolai, vengano domati con estrema cura. E a dirlo non è qualche piromante scapestrato specializzatosi in medicina, ma gli epidemiologi, all’unisono.
Nel nostro paese le mappe del contagio fotografano una sostanziale disomogeneità. Ci sono regioni in cui i numeri non si comportano come dovrebbero, altre in cui si comportano sin troppo bene, facendo presupporre una circolazione della malattia piuttosto blanda.
Si pensi che, stando ai dati di ieri, il 40,6% dei nuovi casi a livello nazionale riguarda esclusivamente la Lombardia. Una percentuale mostruosa. Per giunta, in una regione il cui numero di decessi per Covid-19 è pari all’8,3% dei decessi dell’intero pianeta, stima a ribasso. Si pensi, inoltre, che, attenendoci ancora ai dati di ieri, la somma dei nuovi casi registrati in Molise (0), Basilicata (+2), Calabria (+9), Valle d’Aosta (+1), Sardegna (+7), Umbria (+5), Campania (+53), Puglia (+109) e Sicilia (+43) è inferiore all’incremento dei nuovi casi registratosi nella sola provincia di Milano (+272).
Eppure, stando alle prime indiscrezioni, pare che la fine del lockdown prevista per il 4 maggio potrebbe non tener conto dei principia mathematica dell’epidemia. Svolgendosi con un’indiscriminata applicazione delle medesime misure su tutto il territorio nazionale. Come se la cosa potesse avere politicamente senso o potesse risultare minimamente coerente con gli inevitabili sacrifici finora imposti alla popolazione.
Il governatore lombardo Fontana, pressato a sua volta dalla Confindustria locale e da Salvini, sta facendo forti pressioni sul governo centrale per evitare una riapertura a diverse velocità che penalizzerebbe la ripresa economica della Lombardia. Questo dopo che la regione da lui amministrata, dal punto di vista sanitario, è stata protagonista di un “clamoroso fallimento” (parole di Galli, primario di infettivologia del Sacco di Milano): ritardando l’attivazione di reparti Covid negli ospedali; non tutelando il personale ospedaliero; trasformando le case di riposo in ripetitori epidemici – in case dell’eterno riposo – attraverso un dissennato trapianto di malati all’interno di strutture stracolme di soggetti a rischio; in fine, non assumendosi la responsabilità di delimitare i più imponenti cluster di infezione del paese con delle zone rosse (come fatto, ad esempio, da De Luca in Campania), scaricando le colpe sui decisori di Roma. Il tutto al netto del più alto numero di terapie intensive su scala nazionale.
E se errare è umano e perseverare è diabolico, il perseverare dopo 12940 deceduti meriterebbe forse un’aggettivazione specifica, meno clemente. Gori, sindaco di Bergamo, e Sala, sindaco di Milano, per fortuna, hanno ammesso le proprie leggerezze gestionali durante gli esordi dell’epidemia, invitando alla cautela, alla resipiscenza: gli slogan “Milano non si ferma” e “Bergamo non si ferma” appaiono già come materiale da damnatio memoriae.
Tuttavia, il filone delle importanti figure dirigenziali, Fontana in testa, secondo cui non c’è necessità di tesaurizzare la dolorosissima lezione in corso d’opera perché, di fatto, non ci sarebbe alcuna lezione da apprendere, sembra maggioritario. Massimo De Manzoni, condirettore de La Verità e instancabile promoter della riapertura disinvolta si è espresso così: “Basta dire che la vita conta più di ogni altra cosa: altrimenti i nostri santi dovremmo chiamarli deficienti”. Sintetizzando: meglio morti che improduttivi. Titolo: il martirio economicistico come nuova frontiera della santità.
Ebbene, alla luce di tali considerazioni, verrebbe da chiedere a chiunque parteggi per una riapertura sincrona della Lombardia come dovrebbero comportarsi e cosa dovrebbero pretendere al momento tutte quelle regioni praticamente prossime al contagio zero. Immaginiamo che per i riaperturisti a oltranza la riapertura delle stesse dovrebbe essere non immediata, bensì immediatissima. Che il lockdown, dati alla mano, non avrebbe più alcuna ragion d’essere.
Invece, tacciono. E tacciono perché, nonostante Campania e Calabria, ad esempio, siano state indicate come modelli di gestione virtuosa della crisi pur con minori risorse (la Calabria è stata addirittura citata dal New York Times), continuano a non fidarsi.
La catastrofe al Sud è sempre dietro l’angolo di default, a prescindere dal principio di realtà, e il Sud medesimo, alla fine, si è convinto della giustezza di questa linea, non protestando, disciplinandosi e non spingendo per una ripartenza prematura. Ecco, forse sarebbe opportuno che, nel preservarsi da un’ulteriore catastrofe, il Nord, Lombardia in primis, non facesse affidamento, fatalisticamente (e fatalmente), in maniera uguale e contraria, sulla radicata convinzione della propria maggiore efficienza.
Il 4 maggio è alle porte e l’Italia deve ripartire. L’Italia, non la Lombardia.