Le pastiere si infornano in coppia
Coronabond, Eurobond, Die Welt, quarantena, libertà, Conte, De Luca, Fontana, Salvini, Gualtieri, Renzi. Ancora, Travaglio, Fede, La casa di carta, Sarri. Forse solo Ascierto e Galli, la Napoli Juventus della ricerca scientifica, possono dividere come la pastiera a Pasqua. Cannonate di barattoli di grano e tsunami di fior d’arancio da un lato, cannella, crema e riso dall’altra. Le colombe della pace la fanno franca, ma non è chiaro come.
Googlando “pastiera verità” in 0,61 secondi l’algoritmo di Mountain View pesca circa 167.000 link. Confesso di aver impiegato diverse ore di insonni notti per aprirne il più possibile. Non so quante vere storie della pastiera abbia letto. E con esse indagini, poco serie e molto poco serie, sul valore simbolico degli ingredienti. Una divertente narrazione filogenetica narra della metaforica unione tra mondo animale (il latte) e vegetale (il grano). Ma tu vedi la mania di voler attribuire un’aura di cultura spiccia e sacralità pagana alle pietanze dove deve portare. Il grano cotto nel latte, più banalmente, crea un composto cremoso e dolciastro. È questione di chimica. È come col riso. Non per caso esiste anche la pastiera di riso.
Oibò, che ho detto. La pastiera è solo di grano. Lo asserisce una delle fazioni più potenti della faida delle pastiere, temibile poco meno di quelle della ‘ndrina. Invero il primo vocabolario a riportare la parola pastiera (De Mauro, 1935) precisa: torta tipica napoletana a base di pastafrolla ripiena di grano… Ma i dizionari non sono libri di storia, registrano il lessico. L’uso più comune del termine è a Napoli e a Napoli la pastiera si è sempre fatta col grano. Non se ne può derivare una verità.
È vero, invece, che l’etimo del vocabolo sia pasta. In effetti pastiera, genericamente, indica qualsiasi composizione avvolta in una pasta. Tutte le pastiere, quindi, hanno pari dignità. L’ortodossia è sempre deplorevole, ma la pastiera di grano è la più buona. Questa è una verità. Anzi una quasi verità. Se la pastiera di grano non è la più buona in assoluto è sol perché nessuno può asserire una simile preminenza. Nemmeno la dea Partenope, protagonista di una delle leggende più diffuse e piacione sull’origine della pastiera.
Le tante verità sull’origine della pastiera non sono vere o quantomeno non sono verificabili e sono, dunque, dicerie. Le dicerie non fanno bene alla gastronomia, ne determinano una subalternità culturale eccedente il dovuto, ma questa è questione da discutere in altra occasione,
Ci sono, allora, verità sulla pastiera oltre l’etimo? Si, ce ne sono diverse.
La prima riguarda la ricetta. Ogni famiglia ha la sua e la ritiene autentica, originale, definitiva infallibile, inimitabile. Ciscuna di queste famiglie è un clan pronto a sfidare il resto del mondo dei preparatori di pastiere a suon di tielle.
Un’altra verità è connessa alla prima: la pastiera di casa è nettamente migliore di quella acquistata. Si tratta di una fede, a ben vedere. La pastiera acquistata, al più la si regala. Provate ad asserire di servire sul vostro desco pasquale la pastiera della pasticceria. Vi troverete innanzi un’espressione di disguto e commiserazione, fosse anche la pastiera della più rinomata pasticceria del mondo.
Ulteriore verità è che la pastiera è difficile e complessa da preparare. È un’alchimia magica che quando si perfeziona produce risultati sublimi. La mescola di grano cotto, ricotta zuccherata e uova, ad esempio, non va versata nel ruoto rivestito di pasta frolla. Questo sarebbe un errore fatale. Bisogna usare il “cuppino” (mestolo), rimestando ogni volta il composto. Anche il rimestamento ha i suoi segreti. C’è chi sostiene basti un quarto di giro, chi si allunga ai 180° e chi ritiene indispensabile un’intera rigirata a 360°. Qualche massaia, poi, catechizza, imponendo un gesto dall’alto verso il basso e viceversa. Non mi addentro nell’intricato tema della mezza frullatura. Nell’alchimia non codificata risiede il vero motivo per cui ciascuno difende la propria ricetta, affinata in lunghi anni di ruoti infornati.
Già il forno, la cottura. “E ritt nient” (hai detto niente) si dice a Napoli. Cuocere la pastiera richiede abilità che sconfinano nell’esoterico. La tempratura va modulata nelle varie fasi di cottura, così come la posizione del ruoto nel forno. Addirittura ho visto cuocere pastiere a forno semiaperto, immaginando l’esultanza dei manager dell’Enèl. La cottura della pastiera dura il tempo di una partita di calcio. A volte si va ai supplementari. E quando poi è il dolce è cotto, non si pensi che lo si possa estrarre dal forno. Va tenuto lì un tempo oscillante, a seconda del mago ai fornelli, tra la mezz’ora e tutta la notte.
Il tempo è un’ulteriore verità, l’ultima che qui riporto. La pastiera deve riposare. Dopo cotta, non basta che si raffreddi per mangiarla, devono passare almeno 48 ore perché sia ottimale. Per questo motivo la pastiera si cuoce sempre in coppia, acché la prima possa essere destinata all’eretico consumo durante il tempo necessario all’altra per acquisire la sua potenza gustativa. Difficilmente la prima, però, arriva a durare due giorni. L’eresia si consuma rapidamente. Almeno a casa mia.