Cinque film sulla A24

Da qualche anno a questa parte, la mia certezza in campo cinematografico si chiama A24. La casa di distribuzione (e produzione) con sede a New York, fondata nel 2012 da Daniel Katz, David Fenkel e John Hodges, è riuscita con dedizione e impegno a collezionare un catalogo di opere dall’accentuata prerogativa autoriale. Anche quando vengono inventariate (non senza una vena di superficialità) nei fascicoli dedicati ai generi più popolari, quelli che sulla carta godono dell’incasso facile (mi viene in mente l’horror, ad esempio), le pellicole targate A24 non paiono mai indirizzate a una platea troppo sprovveduta. Spesso si tratta di lavori di qualità elevata anche se a budget limitato, che di norma sarebbero destinati a un’esistenza periferica fatta di festival di nicchia e visioni private, ma che la A24 intercetta e rende disponibili a un pubblico decisamente più vasto.

Con un nome preso in prestito da un’autostrada italiana (leggenda vuole che Daniel Katz si trovasse in Italia e percorresse quell’autostrada in direzione Roma quando gli venne la folgorazione per il nome), la A24 è riuscita, nei suoi anni di attività, a non tradirsi mai. La piccola carrellata di gioielli che mi appresto a compiere con voi ne è dimostrazione, sottolineando che ho dovuto penare non poco per limitare la lista a questi pochi titoli.

Under the Skin

È l’esempio del modus operandi della A24, nel caso particolare applicato alla fantascienza. Jonathan Glazer è un regista controverso, tornato dietro la macchina da presa dopo dieci anni con quello che è forse il suo film più visionario. Un lungo, allucinante, viaggio per le lande scozzesi in cui niente è concesso allo spettatore: ogni spiegazione è contenuta nell’immagine, il potere è riconsegnato agli occhi di chi guarda. Tratto dal romanzo di Michel Faber, il film assume la prospettiva di un’extraterrestre (Scarlett Johansson) perduta (lei) in un mondo alieno (il nostro). Girato con telecamere nascoste, con attori che non erano coscienti di esserlo, con soluzioni a volte vicine al videoclip, il film ebbe una pessima accoglienza al festival di Venezia del 2013, sia di critica che di pubblico. E questo la dice lunga.

Enemy

L’idea di portare sul grande schermo l’opera di un premio Nobel farebbe tremare i polsi a chiunque. Denis Villeneuve è un regista che non si lascia spaventare facilmente (come dimostra, ad esempio, il coraggio dimostrato nel confrontarsi con il mito di Blade Runner) e realizza la sua personale versione/visione de “L’uomo duplicato” di José Saramago. Più si allontana formalmente dal romanzo del genio portoghese, più Villeneuve concretizza una devota trasposizione della sua più intima essenza. Diversa dislocazione geografica, differente collocazione temporale, variazione del finale con guizzo creativo, ma un (doppio) Jake Gyllenhaal che sembra uscito direttamente dalle pagine del libro e un thriller che percorre le ossessioni umane allo stesso modo delle architetture urbane cementose.

Un sogno chiamato Florida

Raccontare di chi vive al confine, sui bordi, ai limiti, è sempre pericoloso. Sean Baker cede al suo sentiment(alism)o e ci restituisce una visione cruda ma incantata. Attraverso lo sguardo di una bambina di sei anni (Moonie, la bravissimaa Brooklynn Prince) indaghiamo delle esistenze allo sbando che oscillano tra il sogno e la sua imitazione, tra Disney World che si staglia sullo sfondo e Magic Castle, il decadente motel rosa-confetto in cui Moonie vive con sua mamma. Baker padroneggia sia le sfumature della malinconia che i toni sferzanti dell’imbarbarimento e ci mostra come la stessa situazione possa essere un’avventura fiabesca per dei bambini e un esempio di tremendo degrado per gli adulti. Maledetto Baker, sul finale mi hai rubato anche una lacrima.

First Reformed

Paul Schrader ha l’età di mio padre, un passato di alcolismo e depressione, una sceneggiatura di Taxi Driver in curriculum e una mano pesante quando vuole tirarti una sberla. “First Reformed” è la sua ultima regia (anno 2017), ma il suo palmo da settantenne non mostra cedimenti e colpisce ancora con grande forza. La storia del reverendo Toller (Ethan Hawke in una delle interpretazioni migliori della sua carriera) e dei suoi conflitti interiori procede col passo lento della vecchiaia, ma anche della saggezza; è un passo senza acciacchi, ancora sicuro, e scende, gradino dopo gradino, convincimento dopo convincimento, fino alle porte dell’inferno personale di un uomo di chiesa con un passato lancinante. L’urlo della razza umana morente si alza straziante insieme a quello di Toller, lacerato nell’animo come nella carne, per uno dei gioielli assoluti di casa A24.

Uncut gems

Conoscevo i fratelli Josh e Benny Safdie dal precedente, notevole, “Good time”. “Uncut gems” osa ancora di più, benché si muova negli stessi ambiti che sono quelli del noir metropolitano, ma preme più a fondo sui pedali dell’acceleratore tachicardico degli eventi, enfatizzati da un accompagnamento sonoro e musicale (opera di Oneohtrix Point Never) incalzante e rintronante. La produzione esecutiva di Martin Scorsese pare giustificare alcune scelte di sceneggiatura, ma è l’interpretazione di Adam Sandler (nel ruolo del gioielliere ebreo Howard Ratner) a contrastare per due ore piene la forza centrifuga che potrebbe far schizzar via tutte le buone intenzioni. Alla fine, tra ospiti di lusso indispensabili per lo sviluppo degli eventi (il campione NBA Kevin Garnett, la popstar The Weeknd, entrambi nel ruolo di loro stessi) e comprimari esplicitamente scorsesiani, si compie il destino di chi proverbialmente troppo vuole.

Buona visione.