Economia circolare e sculture sociali
Se ci pensiamo, gli spazi pubblici svuotati che stiamo guardando malinconicamente dalla finestra, erano già stati impoveriti da tempo, soprattutto dalle scelte di pianificazione urbana regolate dagli investimenti dell’economia capitalista.
L’accorpamento del commercio nei centri commerciali ha portato molti spazi pubblici delle grandi città italiane, e delle città d’arte, a svuotarsi delle piccole attività produttive che li animavano. Alcuni centri storici sono stati trasformati quasi esclusivamente per fornire servizi ai passanti, che li solcano attraversandoli o sostando rapidamente. Altri luoghi, privi di senso, slabbrati, degradati o abbandonati, sono diventati spettrali da tempo.
La vita tra gli edifici si muove “spaziando a piacimento nel terreno”, secondo frecce e vettori influenzati da diversi fattori: le funzioni degli edifici intorno, la qualità dello spazio urbano, la posizione nel contesto…
La delocalizzazione del commercio in megastrutture monofunzionali ha impoverito gli spazi urbani.
I centri commerciali sono perfetti per la funzione a cui rispondono e diventano essi stessi un nuovo spazio “pubblico” a tempo, con l’unica enorme pecca che gli individui di passaggio in questi luoghi (o non luoghi) sono attratti primariamente dal consumo dei beni in vendita. La socialità è possibile, ma è un’appendice al momento degli acquisti.
Il consumismo, su scala globale, ha modificato profondamente la vita nelle città, e le città stesse.
Tuttavia, i limiti raggiunti dalla capacità portante del pianeta hanno imposto al capitalismo stesso di rivedere alcune sue modalità.
La settimana scorsa, a New York, si è svolta la Circular City Week, una finestra delle tante nel mega trend globale dell’Economia Circolare, promossa da diverse imprese e associazioni e avente come partner istituzionale i Paesi Bassi.
Proprio i Paesi Bassi, in Europa, sono all’avanguardia nella ricerca e nell’applicazione dei principi di questo nuovo modello di sviluppo. La città di Amsterdam si è posta, infatti, l’obiettivo di essere completamente circolare entro il 2050.
Cosa significa circolare?
Mentre il modello economico lineare si fonda su attività di estrazione-produzione-vendita-consumo-dismissione, l’economia circolare propone la “chiusura del cerchio” reintegrando gli scarti in nuovi processi produttivi e razionalizzando l’uso delle risorse. Le sinergie industriali in parte lo fanno da anni.
Questo modello propone sostanzialmente filiere nuove o alternative, concepite per una eco-efficienza trasversale che punti a ottimizzare gli impatti ambientali del nostro attuale stile di vita. Il paradigma dell’economia circolare contiene i concetti di recupero, riuso, riparazione e riciclo, ma non la riduzione dei consumi, come proposto invece dal movimento della decrescita.
La novità introdotta dall’economia circolare è nell’esplorazione delle molteplici opportunità che le filiere del recupero offrono. Da un lato si considerano i prodotti a base naturale, cibo e materiali biodegradabili, che alla fine del ciclo di vita possono tornare alla terra come concime o trasformarsi in nuovi prodotti. Dall’altro abbiamo le catene degli apparati tecnologici, dove riuso, riparazione e riciclo sono affiancati da alcune novità. Tra cui la più dirompente sembra essere la sostituzione della vendita del bene con la vendita del servizio (e vai con le speculazioni legate all’idea di possesso!). Esempio: Philips all’aeroporto di Schilpol fornisce un servizio di circular lighting: non vende le lampade, ma la luce.
L’occidente capitalista si attrezza a diventare sostenibile, green, o -addirittura- rigenerativo, per continuare a tutelare il proprio modello di sviluppo. Anche l’Unione Europea sta puntando da anni su misure per incoraggiare la transizione verso l’economia circolare.
Il consumismo non è messo in discussione, ma purificato di una certa dose distruttiva.
La qualità della vita nelle aree urbane, che ora stanno riposando dalla frenesia inquinante dei nostri stili di vita, è profondamente legata alla pianificazione delle attività economiche. Nelle città, però, si assiste ancora a operazioni di “rigenerazione urbana” fondate sulla costruzione di centri commerciali.
Tecnicamente, un centro commerciale può essere realizzato seguendo i più innovativi parametri LEED o WELL, contenere negozi che praticano un perfetto circular business model, e offrire lavoro a condizioni eccellenti in un ambiente di qualità.
Ma la Bigness delle megastrutture commerciali piazzate nelle città, oltre a dirci fuck the contest, cosa dimentica? Koolhaas, nel suo libro “Junkspace. Per un ripensamento radicale dello spazio urbano”, riconosce che la Bigness è modesta, che ci sono molti “bisogni” troppo confusi, troppo deboli, troppo indecorosi, troppo sovversivi, troppo “niente”, per entrare a far parte delle costellazioni della Bigness.
Per noi europei, mediterranei soprattutto, questi bisogni confusi stanno anche nella possibilità dell’esistenza, dell’incontro e dell’interazione sociale libera dall’asservimento al consumo.
In questa prospettiva, l’economia circolare è solo un tassello per una diversa ecologia urbana, in cui gli altri, la natura e il non umano siano un unicum in coesistenza nello spazio fisico. Il progetto dello spazio pubblico, quindi, le pianificazione della città e la distribuzione fisica delle attività, nel nuovo bordo di tendenza circolare, sono operazioni culturali a cui prestare grande attenzione: creano sculture sociali.