Storia di J, una delle vittime del virus che nessuno ricorderà
Anni fa, durante un corso di formazione legato alla professione di docente, un Dirigente Scolastico – uomo particolarmente capace e lavoratore indefesso – chiese al suo uditorio di giovani professori se avessero un’opinione per spiegare come mai, in caso di allerte meteo, la prima cosa a venir chiusa fossero le scuole. Dopo i vari bisbiglii relativi alla “sicurezza” e “incolumità”, con aria beffarda il Preside disse che no, la ragione principale era solo una: chiudere le scuole non costa nulla a nessuno. Chiaramente in termini economici e nell’immediato. Insomma, ci siamo capiti su cosa voleva dire.
Ecco, dietro questa provocazione, con tutto il suo peso dei pregiudizi che, da una ventina d’anni a questa parte, gravano a vario titolo sulla figura professionale dell’insegnante, c’era sicuramente un dato incontrovertibile: l’Italia, e i governanti che volta per volta si alternano alla sua guida, non ha alcun interesse per l’educazione dei propri figli.
In fondo, chi ha la possibilità di preoccuparsi in termini costruttivi del proprio futuro può sentirsi parte di un’oligarchia che, in qualche modo, farà funzionare le cose a proprio vantaggio; per tutti i tanti altri – quelli che del proprio futuro devono occuparsi in termini di sopravvivenza – cari ragazzi, ci dispiace, ma non abbiamo iniziative da proporvi.
Insomma, al netto della necessità di misure per rispondere all’epidemia, la sola cosa che è stata fatta per le nuove generazioni è stata una serrata generale e un generico invito alla didattica on line, per lo più lasciata nelle mani di professori e dirigenti di buona volontà, che hanno iniziato a servirsi di strumenti recuperati un po’ con il passaparola un po’ tramite internet: certo non seguendo delle direttive ministeriali su come organizzarsi.
Il risultato, per molti, si è tradotto in una montagna di lavoro, spesso mal organizzato, certamente non adeguatamente efficiente come deve esserlo l’azione educativa (il riferimento è soprattutto agli alunni più giovani), in molti casi non realmente verificabile nei suoi esiti; ma tant’è, il tempo per migliorarci non ci manca.
Poi però ci sono quelli come J. I tantissimi studenti come J. Che probabilmente sono a malapena informati su quanto sta accadendo attorno a loro e che non hanno un tablet, un computer o anche un telefono che possa servire loro per seguire video-lezioni, video-conferenze o per riempire un documento di Word o un modulo di Google.
J. ha 11 anni ed è arrivata alla sua scuola media chiusa come una noce. Ha trascorso anni alle elementari vittima di bullismo, in una scuola in cui nessuno ha tenuto conto dei suoi bisogni educativi né delle sue fragilità. Ha una madre J., una bella ragazza, più giovane in molti casi anche dei pur giovani insegnanti della figlia; lavora una straordinaria quantità di ore al giorno; ed è sola.
La nuova classe, in cui tanti bambini carini si conoscevano già e condividevano vita e linguaggio della buona borghesia, a J. sembrava l’ennesimo torto che la sorte le aveva destinato. All’interno di quella classe J. si era ritagliata il suo ruolo, continuando a sentirsi vittima dei bulli e a tradurre questo disagio in insuccesso scolastico.
Però qualcuno aveva deciso di interferire con i suoi piani. In realtà tutti. Insegnanti e studenti. Sono stati mesi di duro lavoro. Mesi di incoraggiamenti e di rimproveri bonari, di circle time e di arrabbiature, di semplificazione dei materiali, di studio, di tentativi (riusciti) di mettere tanti undicenni sullo stesso piano, a guardarsi negli occhi e dire “tu non sei un mio nemico”.
J., grazie anche al supporto di quanti hanno volontariamente lavorato per lei, ha iniziato a rispondere come studentessa: una studentessa che si porta dietro difficoltà linguistiche radicate ma che impara il valore della fatica e del duro lavoro da svolgere su delle pagine: quello che nessuno prima d’ora le aveva insegnato. J. ha imparato a vincere la timidezza e, nel giro di quattro mesi, è venuta alla cattedra per farsi interrogare, pur tra mille rossori e tentennamenti; J. si è sentita dire che era brava ed ha conosciuto una nuova forma di felicità, che la spingeva a lavorare sempre di più.
Poi le scuole sono state chiuse. Senza un piano, una progettazione, senza mettere in campo misure di emergenza vere. Fate la didattica a distanza. Facciamola. Parlate con i rappresentanti dei genitori e coordinatevi. Va bene. Ma che fine ha fatto J.?
J. si è persa di nuovo. E’ di nuovo sola e nessuno, questa volta, sembra essere in grado di tirarla fuori dall’oblio in cui le circostanze l’hanno cacciata. Chiusa in casa con sua madre che, verosimilmente, è tra quelli che il lavoro ora non ce l’hanno e chissà se torneranno ad averlo e in ogni caso quando. Impossibile stabilire un contatto. Probabilmente non le manca neanche tanto la scuola, è troppo giovane per rendersene conto: non ha gli strumenti per seguire la didattica a distanza e la cosa finisce lì. D’altronde, ha 11 anni: è nella sua natura intrinseca non pensare ai danni del suo presente sul futuro. Avrebbe dovuto pensarci qualcun altro: gli stessi che le hanno chiuso le scuole e hanno rimandato, per lei, a data da destinarsi, il momento in cui inizierà a sentirsi tranquilla appoggiando una penna sul foglio. Ma nessuno ci ha pensato, a J.
Alle migliaia di J., improvvisamente chiusi in casa, nessuno ha pensato. Chi ha i mezzi, in qualche modo, sopravviverà a questo massacro sociale: certo, portando per tutta la vita un trauma di cui nessuno si è curato (è molto più interessante scrivere articoli su gente che sbraita dal balcone, giusto?), ma, in fondo, sopravvivendo. Poi ci sono quelli come J. Che nella scuola avevano timidamente imparato a costruire dei loro stessi più consapevoli e che, ora, ritornano indietro. E la fatica per riprendere la strada, quando verrà data loro la possibilità di farlo, sarà aumentata di molto, c’è da giurarci. E difficilmente, in futuro, le verranno fatti sconti per questo.
*NdR. Non esiste nessuna J., naturalmente. Ma ne esistono a migliaia. E ciascun insegnante ne incontra a decine nel proprio lavoro e, nei modi più diversi, cerca di mostrare loro una strada da percorrere.