Il tempo illumina la solitudine della quarantena

La quarantena si sta rivelando una falla nel sistema del “tempo”, un upgrade che non eravamo intenzionati a installare. «Il tempo come sonda nella profondità dell’apparenza sociale», scriveva Walter Benjamin, lo stiamo sperimentando, forse per la prima volta, come disagio, come paura, come voragine in cui sprofondare in solitudine. In questo precipitare nel silenzio si sentono echi del romanzo proustiano. Nel passaggio dal tempo organizzato a quello da occupare, come se il tempo fosse un territorio da colonizzare, ci accorgiamo che anche noi, come Proust, stiamo andando a letto presto la sera. Occupare il tempo, e occuparsene, è un’infiltrazione sottocutanea di senilità in un corpo abbandonato e abituato al frastuono del mondano. Il tempo della quarantena non ci dona, però, un corpo da vecchio, ma ci fa vivere in un sussurro che ripete che dentro di noi alberga una gallina morta al posto del cuore. La solitudine è antica, ci precede, ed è inscritta in qualche gene del nostro codice genetico.

Nella Recherche la felicità dei personaggi è un’esperienza solitaria, non può essere condivisa con altri. Siamo fuori dal “contatto”, annota Benjamin. Non c’è social che regga, siamo fuori dagli altri, dentro noi stessi.

Nel tempo perduto, ricercato nella quarantena, siamo vecchi che, da molto tempo, si svegliano presto la mattina e fanno incubi sul “tempo”. «La mattina ha l’oro in bocca», scriveva Jack Torrance con la sua macchina da scrivere in una sala dell’Overlook Hotel. La mattina ha “loro” in bocca, mi trovo a scrivere io sul portatile nel loculo confinario del mio Overlook Hotel.

Overlook, appunto, guardiamo oltre, dentro il tempo.

È presto per capire cosa sarà stata questa quarantena, ma una cosa la si è già capita: non è e non sarà una rivoluzione estetica. I balconi della gente sono divenuti vetrine dove la scimmia della Nazione «balla la polka sopra il muro e, mentre si arrampica, le guardiamo tutto il culo».

La solitudine della quarantena ci obbliga a sondare il tempo nell’arte. Provarci, proviamoci.

La fotografia, per esempio, non è l’arte della luce, come pensano in molti, ma è l’arte del tempo. Tutto è tempo intorno alla fotografia. Lo è lo scatto, che è un frammento di tempo fissato per sempre: provate a chiedere a un fotografo se il tempo, o i tempi, come li chiamano loro, non sono un inferno da regolare.

Una notte Rafael Y. Herman ha preso il camioncino di suo padre e se n’è andato in giro a caso per il deserto israeliano a fotografare. Lo scopo però non era fotografare, almeno non nel senso abituale con cui lo intendiamo. Rafael Y. Herman voleva destituire di pensiero il gesto. Non più un autore che guarda, selezione, inquadra, sceglie, scatta, controlla, riscatta, ma un puro automa della tecnica della macchina fotografica. Razionalizzare la fotografia spogliandola dell’apparenza visiva e dello sguardo. Una fotografia, nel vero senso della parola, alla cieca.

C’era un solo modo per l’artista israeliano di rovesciare il potere che l’occhio ha, tiranno indefesso, nell’atto del fotografare e questo modo era eliminare la fonte a cui si abbevera da sempre l’occhio per eternizzare il suo potere: la luce.

Scattare senza luce, scattare senza la possibilità dell’autore di fare una scelta d’inquadratura, ma affidarsi a un arbitrario calcolo di tempi di otturazione e alla potenza catartica del vedere “obiettivo” dell’obiettivo. Per paradosso, invertire il meccanismo di funzionamento della macchina fotografica riscrivendo la dialettica tra tenebra e luce che soggiace alla fotografia e lasciarsi andare solo al tempo dell’atto fotografico.

Nel pieno buio delle notti di un deserto, impossibilitato a guardare cosa stesse inquadrando, Rafael Y. Herman si è fermato, aspettando ore perché il diaframma della macchina analogica catturasse nel buio tutta la luce possibile. Questa battaglia impari tesa a smungere al buio la maggiore quantità di lumen possibile è stata combattuta dall’artista per sei anni, dal 2013 al 2019, per diventare la seria The Night Illuminates The Night.

Negli scatti di Herman la luce c’è tutta: prati verdi o punteggiati da fiori rossi; le sagome degli alberi su un cielo bianco latte; una foresta verde; un fiume e ancora acqua e cielo, due toni di blu. Non c’è traccia di nessun essere umano e il tutto acquisisce un’atmosfera di sospensione melanconica. L’effetto è irreale come lo sono certi dipinti impressionisti francesi (i papaveri di Claude Monet) o l’astrattismo americano (Mark Rothko: Blue Divided by Blue). Per un effetto paradossale della casualità, quello che in origine doveva essere un esercizio di stile sul tempo nella fotografia in assenza di luce, si rivela una magistrale topografia dei connotati metafisici della luce. Gli inevitabili errori di calcolo su tempi così lunghi di apertura e chiusura del diaframma fanno nascere tutta una serie di errori e di aberrazioni dalla norma e degli standard di qualità fotografica normalmente intesi senza mai scadere in un collezionismo teratologico della fotografia.

Questo ci fa pensare che l’artista cerchi volontariamente l’involontarietà dell’errore e che, per mantenere un distillato purissimo di tale involontarietà, metta in scena tutta questa situazione, ai limiti della pantomima, per una passionale ossessione per l’erratum che depone ai piedi del monumento all’oggettività della fotografia un ordigno esplosivo senza che però ci sia nessuna manipolazione correttiva al perché avvenga la detonazione.

Esattamente come nell’atto sessuale, in cui due individui si uniscono per un fine difficilmente progettabile, il fotografare come gesto non ha niente a che vedere con la luce ma solo col tempo. L’unione di questi due estranei, luce e tempo, fa nascere la fotografia, orfana per eccellenza.

Nel mentre tutto ciò accadeva o accade, noi continueremo, ancora per un po’, come vecchi ad andare a letto presto la sera e svegliarci presto la mattina e avere del tempo come una sensazione di gas nervino.