Lucio Fulci, il terrorista dei generi
«Alcuni mi ritengono completamente pazzo perché tento sempre di uscire dal genere, tento di essere un terrorista del genere. Sto dentro, ma ogni tanto metto la bomba che tenta di far deflagrare il genere. Infatti ne ho trascorsi tanti, di generi…»
Lucio Fulci
Lucio Fulci, nato a Trastevere il 17 giugno del 1927, è stato parte attiva di quella generazione di cineasti (Mario Bava e Umberto Lenzi per citarne due) che sapeva far cinema con budget risicati, puntando tutto sulle proprie geniali intuizioni e sull’ arte d’arrangiarsi. Spesso bistrattato dalla critica italiana, oggi (anche grazie a un grande numero di estimatori tra i registi affermati, Quentin Tarantino su tutti) il suo nome contende a Dario Argento e Mario Bava lo scettro di “maestro dell’horror italiano” .
Intellettuale di idee marxiste e animo anarchico vive la prima gioventù a casa di amici pittori, si appassiona al jazz, scrive canzoni e conosce uno dei grandi amori della sua vita.
Dopodiché, si iscrive al Centro Sperimentale di Cinematografia, dove viene ammesso con il massimo dei voti da Luchino Visconti, a cui Fulci fa notare che in “Ossessione” ci sono molte inquadrature copiate da Renoir.
I suoi esordi lo vedono sceneggiatore di classici della commedia come “Un americano a Roma”, “Un giorno in Pretura”, alcuni film di Totò, qualche musicarello e una lunga serie di film con Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, del quale riuscirà a esaltare il talento mimico, fisico e linguistico.
Nel 1969 dirige lo spartiacque della sua filmografia, ovvero “Beatrice Cenci”, sulla triste vicenda della donna giustiziata perché osò ribellarsi alla violenza paterna. Fulci realizza un film scomodo, che viene preso a calci dalla critica e osteggiato dal Vaticano. Il regista romano già pochi anni prima si era appassionato alle teorie di Antonin Artaud e al “Teatro della Crudeltà”, secondo cui la violenza può essere un mezzo per scuotere la coscienza dello spettatore e condurlo a una percezione della realtà maggiormente consapevole.
Durante la stagione d’oro del “thriller all’italiana” (inaugurata da Mario Bava e capeggiata in seguito da Argento), il cineasta realizza capolavori come “Una sull’altra”, “Una lucertola con la pelle di donna”, del 1971, ma soprattutto “Non si sevizia un paperino”, per molti il suo lavoro migliore. Un film che affonda il coltello nelle tradizioni e superstizioni popolari dell’Italia meridionale e che, a dispetto di un budget sicuramente non adeguato, centra pienamente il bersaglio.
Dopo alcune incursioni nel genere western e nella commedia, tornerà al thriller nel 1977 con un altro capolavoro, “Sette note in nero”, in cui dosa sapientemente l’elemento onirico, quello splatter e quello sovrannaturale.
Dalla fine degli anni ’70 e sino al termine della sua carriera Fulci approderà all’horror puro con tante pellicole di culto che faranno coniare per lui, dalla critica francese, il titolo di “poeta del macabro”. Nell’ultima parte della sua vita, costretto sulla sedia a rotelle, il maestro troverà anche il sostegno del vecchio rivale Dario Argento per un grande progetto che avrebbe dovuto segnare il suo ritorno al cinema. Purtroppo, nel marzo del 1996 la morte lo coglie (per delle complicanze del diabete) mentre lavora al film “Maschera di cera” (poi girato da Sergio Stivaletti).
Negli ultimi anni di vita la critica specializzata, la stessa che lo aveva sempre massacrato, lo rivaluta e spuntano dal nulla tanti nuovi fan. Questa situazione inaspettata, che comunque addolcisce il triste periodo che sta vivendo, ispira a Fulci l’ultima celebre battuta con cui mi sembra giusto ricordarlo:
“Sono io stesso uno zombie. Sono l’unico regista horror a essere stato riscoperto da vivo”.