La vita moderna, una mostra imperdibile a Milano
La vita moderna è il titolo della retrospettiva ampissima, oltre 300 fotografie, del lavoro di Raymond Depardon, fotografo, regista, intellettuale francese.
Frutto di una collaborazione tra la Triennale di Milano, che ne ha curato l’allestimento, e la Fondazione Cartier, la mostra, inaugurata il 15 ottobre scorso, si concluderà ad aprile 2022.
Si tratta di una esposizione imperdibile, tanto per i contenuti che per l’allestimento.
L’allestimento, la vita
Non era ancora capitato, almeno a me, ipocrita fruitore di mostre, di finire immerso senza scampo (attenzione, non è una di quelle finte mostre, cosiddette immersive, in cui opere finte sono proiettate su muri e teli) nell’opera organizzata ed esposta di un artista.
La disposizione spaziale delle opere sembra una metafora della vita stessa e lo è dell’opera dell’artista. Un’oscillazione tra l’addentrarsi e l’allontanarsi.
Il respiro negli spazi senza fine e l’inspirazione in luoghi definiti per coglierne il senso, svelarne i tratti e rappresentarne la vita.
Così, sempre l’ipocrita fruitore, inspira, entrando in spazi circoscritti che sono città, regioni, Paesi lavori, luoghi di esistenze rappresentati dalle immagini e poi, uscendo, respira, attraversando uno spazio largo che spaesa quasi. Come una decompressione prima di una nuova immersione in uno spazio definito, di inspirare l’aria e la luce di un nuovo luogo.
Si percepisce in questi termini la giustapposizione del corridoio costellato di gigantografie, tutte appartenenti al lavoro sull’Erranza, che sembrano dipinte su muri alti 4 o 5 metri, alle stanze, colorate ciascuna di una tinta diversa, intitolate e dedicate ai singoli lavori di Depardon.
Ci sono il Piemonte, Glasgow, New York, la Francia rurale.
Le fotografie
300 fotografie si diceva, scatti tutti che rifuggono la retorica, con una larga maggioranza di immagini in cui l’uomo non appare o appare solo o solitario. Lo stato dei luoghi raccoglie i segni della vita e ne restituisce la dimensione. Colpisce che le inquadrature siano spesso oblique e non temano l’inquinamento dei segnali stradali o di altre manifestazioni dell’impatto della vita umana (tralicci, fili, paline) o di altri scadimenti. Nemmeno si curano dell’interezza del soggetto ripreso. Per questo, intuisco, riescono a rappresentare l’oggetto, la cronaca della vita del tempo, nello spazio cui appartengono.
Inevitabilmente alcune fotografie trattengono e sprigionano allo sguardo una potenza rappresentativa più forte, se non violenta, di altre. È il caso della foto del bambino con le mani in tasca (ah, che non ci abbia condizionato l’amore per Truffaut) e dell’anziano sferzati dal freddo a Glasgow. E, nella stessa serie, i bubble rosa gonfiati sempre dai bambini. Bolle di colore, quasi come di vitalità resistente e speranza, sullo sfondo tetro del decadimento materiale e sociale e dei colori contristati dell’era Tatcheriana. Un tempo la cui cupezza si specchia nel plumbeo del cielo scozzese. E ancora, la pozzanghera scabra, minima, ma invadente, in primo piano su un paesaggio infinito di una delle gigantografie dell’Erranza.
Il percorso finisce attraverso due passaggi, anzi tre, di grande intensità e densità emotiva.
Il salone immenso della Francia a colori fa virare il registro percettivo. Foto di eccezionale vividezza, paiono dipinti, ordinate su tre lati della sala, incorniciate di legno laccato bianco. Disegnano il Paese bello e vivace, fuori dai luoghi di massa e dalle immagini stereotipate da catalogo turistico e social fotografico. Sembra di scorgere un intento dissacrante anche nella contrapposizione tra colore vivo e assenza di figure umane.
Poi si torna al bianco e nero con la serie San Clemente, sugli ospedali psichiatrici italiani. Immagini che si accostano con umanità commovente al dolore. È la serie in cui è più presente l’uomo.
Immediatamente prima di uscire, un intensissimo ritratto fotografico di Franco Basaglia, lo psichiatra artefice di studi corposi e della legge che chiuse i manicomi.
Da vedere e rivedere.