Essere o comma
I disabili bollati “comma 3”, sottinteso dell’articolo 3 della legge 104 del 1992, hanno potuto vaccinarsi con priorità, ossia a prescindere dalle fascia d’età. Non è stato facile per tutti far valere il marchio.
Nel corso degli anni è cambiata la modulistica, sono cambiate le commissioni, gli enti. Non è cambiato il contegno di sospetto, la ferocia né l’ottusità e l’ostilità della burocrazia.
Il tempo del vaccino, insomma, ha ripresentato il conto del rapporto tra disabile e stato, stato apparato.
I problemi sono chiari sin dal linguaggio. «Chi parla male pensa male», «le parole sono importanti» Ferree verità che Nanni Moretti faceva urlare a Michele Apicella. Figuriamoci consolidare un’espressione in una legge, in cento, mille leggi.
Disabilità e disabile, evoluzioni politically correct di invalidità (civile, sic!) e invalido, sono altresì versioni edulcorate e fuorvianti di handicap e handicappato. In uno straordinario percorso di arretramento culturale mascherato da progresso (di facciata) e civiltà (ipocrita), rappresentano meri espedienti semantici per rendere digeribili condizioni sgradevoli, dissonanti dall’ordinario, dalla norma.
Un corpo storpio non è un corpo che rientri nella norma. Un corpo amputato lo stesso. Una mente incapace di percepire tutti gli stimoli, di riconoscerli, di elaborali appieno, non è una mente normale per l’uomo.
Tutte queste sono distorsioni traumatiche o patologiche della natura umana, deviazioni dalla sua bellezza.
Affermare la diversità o la sua bruttezza non è discriminazione.
Per tornare alle parole, disabilità e disabile, che paiono così neutre e civili, traducono una cultura deviante. Focalizzano l’attenzione, come un faro che illumini un protagonista sulla scena, sulla parte sgraziata e disgraziata di persone menomate. Fotografano una realtà e così è come se la rendessero ineluttabile. Ha senso puntare il faro su cosa i disabili non sanno fare? Ha senso definire una percentuale di invalidità ossia di fallacia?
Nessun senso. Giacché riconoscere ciò che non si può fare non condurrà a poter fare.
Handicappato, invece, è un’espressione che punta il faro sull’ostacolare, sull’ostacolo. Su ciò che impedisce a una persona storpia, limitata o condizionata nei processi cerebrali, di esprimere le capacità disponibili .
Sembra un concetto astratto ma è molto concreto: se non ho una gamba o due e ho problemi a muovermi non è detto che non possa farlo in senso assoluto o che non possa andare a lavoro, a ristorante, in palestra. Posso muovermi con un’auto opportunamente adattata o in sedia a rotelle. Ciò che non potrò fare dipenderà da tutte le barriere (ostacoli) che l’organizzazione sociale e materiale mi porrà, laddove dimentica che ci sia qualcuno che non può usare le gambe per muoversi. Ragionamenti analoghi possono condursi per altre menomazioni e, con più complesse valutazioni, in relazione ai deficit cerebrali.
Insomma, mentre la disabilità è una condizione soggettiva, l’handicap è una contingenza dialettica, data dal rapporto tra un deficit e l’organizzazione della società.
Una legislazione, come quella italiana, tutta centrata sulle invalidità produce mostri.
Il mostro più grande è costituito dalla massa, che è anche messe, di “compensazioni” riconosciute dallo stato per ciò che l’accidente o l’incidente ha tolto dal corpo o dalla mente dei disabili/handicappati. E ancor di più per per gli handicap (ostacoli) che è incapace di rimuovere, per sopperire alla propria incapacità di consentire la mobilità, il lavoro, lo svago, le cure, l’assistenza.
Queste compensazioni creano un mercato in cui si avventano affaristi, lobbisti, furbastri.
Così in Italia, alla fine, l’handicap non è questione di organizzazione ma assurge a questione di bilancio. Il disabile pesa, è una spesa. Da tagliare.
La percentuale di invalidità (che terribile intuizione definire la percentuale non buona, non valida di un essere umano) è funzionale al meccanismo delle compensazioni. Un meccanismo disumanizzante.
Il sopraffino legislatore italiano, poi, non bastasse, vi ha sovrapposto la valutazione della gravità o meno della condizione individuale, con la famigerata, predetta legge 104 del 1992.
La madre di tutte le ipocrisie: obiettivi ed enunciazioni encomiabili, nella pratica applicazione largo favoreggiamento di truffe e fannullonismo. La legge c’è, ma è mero alibi perché i problemi restano in larga parte irrisolti.
In questo magma melmoso legislativo, il disabile, storto, piegato, stanco, sfibrato, è aggredito, umiliato ogni qual volta entra a contatto con l’apparato statale. La legge è abusata, il pregiudizio di usurpatore aleggia su tutti gli storti e non basta essere palesemente storti, esibire la propria sgradevolezza, la lentezza, l’incapacità.
Lo stato apparato deve ostentare fermezza e severità per esorcizzare le sue nefandezze.
Non è capace di vedere l’essere e nemmeno di schifarsi, figuriamoci di accogliere. Vuole il bollino “comma 3” stampigliato su un qualche foglio firmato da un qualcuno che se ne è assunto la responsabilità libera tutti. E se il foglio è perso, sbiadito, illeggibile, tanto peggio. L’essere non è, se non è comma. Niente vaccino. Si attenda il turno per fascia d’età.
Così fuori agli hub vaccinali, quando era il turno degli handicappati, si udiva un brusio: «ma tu sei comma 3? hai portato il foglio?». Genitori arrabbiati, genitori esasperati, assistenti disperati, tutti a scartabellare mentre l’handicappato tremava, struscia, sbavava.
Preferirebbero portare un tatuaggio, anche in fronte, “comma 3” pur di non dover ogni volta spiegare l’evidente, mostrare il peggio del loro corpo, correre a riaprire il faldone delle vecchie carte, tirar giù le solite lacrime, ogni volta più dure.
Photo by Kyle Glenn on Unsplash