Recovery Fund: il Sud avrà di meno, come sempre
In base alle direttive del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), al Sud spetterà circa il 40% dei 200 miliardi previsti dal Recovery Fund. Una percentuale che non trova riscontro né nel concetto di resilienza né nelle indicazioni di Bruxelles (dare al Sud almeno il 65% delle risorse disponibili considerando PIL, disoccupazione e popolazione). Ma che potrebbe trovar riscontro nelle oscure indicazioni di McKinsey, multinazionale di consulenza strategica ingaggiata con funzione supervisionale dal “governo dei migliori” allo scopo di ottenere la massima efficienza di spesa in chiave PNRR.
Secondo un vecchio adagio “follia è fare sempre la stessa cosa sperando in un esito diverso”. Nella fattispecie, dare sempre meno a chi ha di meno e di più a chi ha di più nella speranza che chi ha di meno, per l’intervento di qualche abracadabra imprecisato, possa mettersi in pari con chi ha di più.
In altre parole, folle è il ritenere che il modello di sviluppo nordcentrico/neoliberista, riproposto per l’ennesima volta, possa servire ad appianare lo storico divario di cittadinanza tra le diverse aree geografiche del paese causato proprio dalla monotona reiterazione del modello di sviluppo nordcentrico/neoliberista. Innegabile è, infatti, una certa somiglianza, nel metodo, tra la terapia Recovery riservata dalla Draghinomics al Mezzogiorno e la terapia standard riservata da decenni al Mezzogiorno, attualmente area più povera d’Europa al pari della Grecia, non a caso.
L’idea di controllo è sempre la medesima, inossidabile, longeva come le microplastiche: arricchendo di più chi è già ricco si fa un favore anche a chi è povero. Effetto a cascata, puramente teorico, che tutto giustifica: disoccupazione giovanile galoppante, disuguaglianze sociali, migrazione interna, smantellamento dei diritti dei lavoratori, welfare mafioso.
La medicina è la malattia, si ripete il carrozzone confindustriale durante le sue sedute di brainstorming, ironizzando sui beneficiari del reddito di cittadinanza all’ombra del Vesuvio, superiori di numero rispetto ai beneficiari dell’intera Lombardia. Grasse risate.
Il sottinteso: perseverare indefessamente, ci si conceda l’iperbole, nel fratricidio d’Italia per il bene dell’Italia. Che finora ha significato infrastrutture, scuole, servizi, possibilità occupazionali e investimenti sbrilluccicosi da un parte e potatura antropologica, evasione scolastica, migrazione lavorativa e sanitaria dall’altra.
Un piano di recupero avallato, come consuetudine vuole, da larga parte delle classi dirigenti coloniali, terroniche. Giubilanti nell’annunciare il trionfo del 40% per spirito di sopravvivenza a chi le ha votate pretendendo tutele crescenti.
Se non è un miracolo ha pari dignità, la parafrasi della propaganda appecoronata. Prona fino all’inenarrabile sconcezza. Fino alla libera circolazione, nelle segrete stanze, degli stereotipi più rugosi, del “tanto, per come verranno spesi quei soldi…” e di altri pilastri su cui si fonda l’ermeneutica maccheronico-razzistoide dei maestri del ritorno economico e dell’autonomia differenziata. Gli stessi che hanno dilapidato soldi pubblici (attinti, dunque, anche dalle tasche dei meridionali scansafatiche) per capolavori come il Mose o l’Expo.
A protestare contro lo scippo definitivo, in quel di Napoli, 500 sindaci. Molti dei quali appartenenti a liste civiche, sempre più in voga nel Meridione, perché i partiti paiono appartenere a una terra straniera. Da Piazza Plebiscito i primi cittadini pretendono equità, pretendono che chi ha di meno abbia di più. Pretendono l’abbandono del criterio coloniale nella distribuzione degli investimenti pubblici. Pretendono un sacrosanto vincolo di destinazione per i soldi del Recovery (ottenuti dall’Europa in cifra significativa con l’impegno preciso di ridurre le disuguaglianze tra le diverse aree del paese). Pretendono attenzione. Mediatica e politica.