Noemi è dimagrita. E chi se ne frega
La signora Noemi, al secolo Veronica Scopelliti, cantautrice nostrana dal crine rosso fuoco, negli ultimi giorni irrompe sulle copertine italiche con un dimagrimento che sembra averle dato una svolta di vita epocale. Francamente, nessuno si era accorto dei (presunti) chili in più, anzi, credo fossimo tutti presi dal suo carisma, dal suo essere fuori dagli schemi oltre che dalla sua voce così particolare. Invece, ora scoppia il “caso Noemi” che, a voler essere grossier, ci sembrava in forma anche prima. Ma non sta a noi giudicarlo, e se la signora Scopelliti sta bene così ne siamo felici anche noi, perciò non tirerò in ballo né il body shaming né la body positivity.
C’è un però.
Il però sta nel fatto che il clamore, l’attenzione mediatica, arriva non per l’ultima canzone, per un disco di platino o la vittoria al Festival di Sanremo, ma per un dimagrimento che sbatte sulle copertine patinate una nuova Noemi in pose da femme fatale. La domanda sorge spontanea, e la rivolgerei alla cantante stessa e a certa stampa: perché dovrebbe interessarci il suo dimagrimento? Perché si è sentita in dovere di comunicarcelo?
Senza voler fare psicologia spicciola, mi chiedo perché ci si senta sempre in dovere di comunicare e manifestare il dimagrimento al prossimo. Come se fosse una comunicazione d’ufficio dello standard di accettabilità sociale raggiunta, una sorta di “adesso, finalmente vado bene!”. Che molto spesso, poi, non corrisponde ad un “mi vado bene”. Ma questo non riguarda solo Noemi, ma qualsiasi donna famosa o sconosciuta che si sente in dovere di comunicare al mondo il traguardo raggiunto.
Perché se ci fosse solo la salute dietro, ciò che realmente conta o dovrebbe contare in un mondo perfetto, allora dovremmo pubblicare sui social i nostri esami delle urine, sciorinare selfie con il risultato dell’ultima colonscopia fatta, pubblicare stories sul nostro ultimo elettrocardiogramma perfetto. Invece no. Quindi, non siamo ipocriti, non è la gioia della salute che certe pubblicazioni manifestano ma il latente e forse, inconscio, messaggio del “Adesso sono giusta/o e sono bona/o. Guardatemi”.
Nelle interviste di questi giorni ricorre un refrain nelle dichiarazioni della cantante che mi si ripropone come una caponata: «Per una che apriva l’armadio e si buttava addosso una felpa, una tuta, è una soddisfazione pazzesca scegliere invece che cosa vuoi indossare davvero. Quando ti scopri, non ti accontenti più». Peccato, ci aspettavamo un “adesso posso fare cinque piani di scale senza fiatone” oppure un “ora il mio colesterolo è rientrato!”.
Scherzi a parte, questa frase è grave. È grave per qualsiasi persona che lo dice a sé stessa, perché nessuno di noi è una taglia, nessuno di noi è un abito che ti va o non ti va. Perché la prima grande battaglia è quella di avere il coraggio di scoprirsi con una 38, una 46 o una 60. Scoprirsi, sentirsi sexy, indossare ciò che si vuole, essere felice del proprio corpo così com’è, essere popolari, essere desiderate, avere una relazione, scopare quanto e come si vuole. Se si pensa di non aver diritto a tutto questo per via di un corpo “non standard”, allora dobbiamo fare un grande lavoro sulla testa prima di farci troppo male sul corpo.
Nel frattempo, i social pullulano di storie in cui ragazze evidentemente sovrappeso che diventano grissini annunciando al mondo di essere finalmente felici, di trovare finalmente abiti adatti e di aver trovato l’amore.
La salute non perviene, guarda caso se non in situazioni estreme in stile “vite al limite”. Questo è grave, nonostante l’apparente felicità che leggiamo in certi visi dimagriti che non dovrebbero fare notizia, semplicemente perché il peso di qualcuno non dovrebbe interessarci. Perché non è felicità ciò che si ottiene per essere accettati dagli altri. Perché se qualcuno dimagrisse solo per la propria salute non sentirebbe di sbandierarlo al mondo a suon di like. Così come è grave e vuota l’attenzione che ti manifestano gli altri dopo un dimagrimento. Che si tratti di riviste che prima non si interessavano a te, di un uomo che da grassa non ti ha voluta o di quel lavoro che non ti hanno dato perché non eri “di bella presenza”, poco importa. Dovremmo, soprattutto noi donne, imparare a non sentirci lusingate da chi o da ciò che ci cerca dopo 10,20,30 chili persi. Non siamo tacchini.
Pericoloso è, dunque, quel legame morboso tra corpo e felicità, figlio del mondo che abbiamo creato e che non c’entra nulla con il “mens sana in corpore sano” dei nostri antenati: è il pensare di dover essere perfetti per essere felici, per iniziare a volersi bene. Ma se non ci si ama, se non si impara a farlo, al di là di qualsiasi corpo si abbia, si rischia di non farlo mai e di spostare l’asticella della perfezione sempre più su: prima sarà il peso, poi ci saranno le rughe, poi i capelli, poi chissà cos’altro. Se non leghiamo la nostra felicità, la stima e il rispetto di noi stessi a qualcosa che non è legato alla carne e alla materia, rischieremo di sentirci incompleti a vita. Perché possiamo avere un corpo perfetto, essere felici perché tutti ci osannano e ci accettano, gasando la nostra autostima, ma non è per sempre. Le rughe arrivano, i seni avvizziscono, le pance e le cosce si sformano e inizia a succedere ancor prima di accorgersene: può accadere dai 30 come dai 50, può accadere per senilità o per salute.
E se non abbiamo legato la nostra anima a qualcosa che non può avvizzire come una tetta o allargarsi come una panza, l’infelicità sarà sempre lì, nera, dall’altra parte dello specchio.
Eleanor Roosevelt diceva «nessuno può farti sentire inferiore senza il tuo consenso».
In realtà non dovremmo consentirlo a niente e nessuno. Mai.
PS. In bocca al lupo a Noemi, che se vincerà Sanremo lo dovrà solo alla sua voce e non alla taglia.