L’era Draghi
Il virus muta velocemente. La politica italiana anche. In una settimana abbiamo assistito a torsioni supersoniche. Varianti su varianti. Ma c’erano una patria da salvare, un Mario Draghi da sposare e un succulento Recovery Plan (in italiano PNRR: Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza) a rendere tutti più collaborativi.
L’euroleghismo ha soppiantato il sovranismo post-secessionista in un week-end, alla giorgettara maniera. Ricevendo in cambio il dicastero dello Sviluppo economico. Tra orgasmi confindustriali, perplessità terroniche e dilemmi propagandistici.
Il ritardo del Sud, pare, rimarrà intonso. Questo è il messaggio. Ineccepibile. Whatever it takes. E la conferma arriva da un’altra assegnazione: il ministero per il Contentino, senza portafoglio (of course), rifilato alla Carfagna, calata nel redivivo e collaudato tris d’assi forzista assieme a Brunetta (Pubblica amministrazione) e Gelmini (Affari regionali).
Nessuno, invero, si aspettava un Salvemini 2.0. Ma, buon Dio, diciamocelo, la berluscones di ferro sta al meridionalismo come Casalino sta alla Critica della ragion pura.
In sintesi: fallito tempo addietro l’esperimento della Cassa per il Mezzogiorno, si continua con la Glassa per il Mezzogiorno. La Draghinomics prossima ventura, sulla carta, non fa presagire cambi di orientamento.
Sul fronte pentastellato, invece, si parla di scisma. Questione di icone. Il Dibba intransigente da una parte. L’abolitore della povertà, di nuovo agli Esteri, dall’altra. Nel mezzo un sostanzioso accordo strappato all’Europa da mettere nei giusti binari e da non lasciare nelle sole mani degli europeisti last minute.
Al Pd, nel “formidabile” prosieguo partitocratico delle spartizioni ministeriali, oltre la Difesa, vanno la Cultura e il Lavoro. Argomenti praticamente ignoti alla penisola e in passato già amministrati con esiti magnifici. Basti pensare al Jobs Act e al brand “Leonardo”. Ma quello era il renzismo, si dirà.
Leu e Italia Viva incassano un ministero a testa: Salute (conferma di Speranza) e Pari Opportunità (Elena Bonetti). Pugno di mosche prevedibile (al momento) per lo stratega Renzi e altri libri da scrivere per l’uomo di punta dell’emergenza sanitaria, sempre meno trend topic nonostante le centinaia di morti quotidiane.
Interessante il nuovo Ministero per la Transizione ecologica affidato a Cingolani, un’eccellenza apartitica. Così come apartitici sono Cartabia (Giustizia), Bianchi (istruzione), Messa (Università), Giovannini (Infrastrutture), Colao (Innovazione tecnologica), Franco (Economia), Lamorgese bis (Interno). Apartitici, non tecnici. Perché di tecnico in politica può esserci solo la forma, mai la sostanza.
A differenza dei governi avvicendatisi negli ultimi decenni (si pensi alle tirchierie di Monti), questo composito esecutivo avrà a disposizione ingenti capitali da investire. Un aspetto inedito che tuttavia, oltre a comportare un ulteriore aumento del debito pubblico, non basterà di per sé, nel breve/medio termine, a strappare il paese dalla morsa delle recessione.
Al di là degli slogan testosteronici sulla scuola, sull’ambiente e sul lavoro, bisognerà decidere quali saranno i blocchi sociali e le categorie professionali a cui i suddetti finanziamenti verranno destinati. Perché se è vero che l’Italia per rimanere solvibile dovrà investire in sviluppo, tecnologia, infrastrutture, industria e ricerca, è altrettanto vero che non sarà sufficiente creare nuovi posti di lavoro se gli stessi non verranno tutelati o stabilizzati.
Il “debito cattivo” non è solo quello che le “intelligenze finanziarie avanzate”, cioè quelli coi soldi, attribuiscono a tutte le declinazioni di assistenzialismo in quanto inidonee alla generazione di un ritorno economico consistente (ammesso che possa definirsi “cattivo” ciò che permette a delle persone in difficoltà di sopravvivere).
Il “debito cattivo” è anche quello che fa aumentare le disuguaglianze sociali anziché sanarle o quello che non viene impiegato nel sostegno strutturale alla domanda interna: con redditi bassi e aleatori su larga scala qualunque sistema economico, di fatto, è destinato inevitabilmente al collasso.
Una riforma del mercato del lavoro che intervenga sulle forme contrattuali flessibili, che modifichi la disciplina dei licenziamenti e che rinnovi il sistema di ammortizzatori sociali a tutela dei lavoratori dovrà, dunque, essere la priorità. Il tempo dei rinvii e dei giochini di palazzo è finito.