L’anno nero della Molisana, una fuffa gigantesca

Inizio d’anno anno nero per la Molisana. Nero (in ragioneria è il colore degli utili) dei conti, che segnano quasi un raddoppio (+86%) del fatturato nei dodici mesi. Nero politico, per le allusioni al ventennio fascista, nero di inchiostro, per il fiume di parole speso.

È scoppiata nei primi giorni di gennaio la caciara social per le etichette del pastificio della famiglia Ferro. Sui pacchi di alcuni formati di pasta, quelli dai nomi evocativi dei paesi africani (si può dire africani o c’è qualche neologismo ossequioso del moralismo contemporaneo? boh) obiettivo del mediocre tentativo coloniale italiano del secolo passato, sono comparse le parole colonialismo, appunto, e littorio. Il campo, l’epopea del ventennio, è sdrucciolevole, si sa. Ma i vocaboli sugli involti sono stati usati ad arte e con abilità. Il messaggio nel complesso era (nel frattempo è stato rimosso) neutro, senza alcunché che a senzienti raziocinanti potesse suonare offensivo. Né vi si sarebbe potuta rintracciare un’apologia del totalitarismo fascista.

Abissine, Tripoline, Bengasine le forme incriminate, poi, esistono da sempre e sono commercializzate anche da altri marchi.

Insomma, le confezioni di pasta Molisana finite sulla gogna erano politicamente sterili.

La sterilità cerebrale, però, è la forza dei fanatici della cancel culture. Utenti, followers, influencer, idioti incapaci di ragionamento. Tutti infuriati. Littorio va cancellato, colonialismo pure, per non dire di Abissine e sue confinanti coafricane.

Giorni e giorni di hashtag, post, stories e titoli di giornali. Addirittura l’Associazione dei partigiani del Molise è stata della pugna, rivendicando il nobile passato della famiglia Ferro, generosa finanziatrice delle feste dell’Unità (che furono). Il che dovrebbe valere a immunizzare la pasta nell’impacco azzurrino anche dall’accusa di sovranismo, che potrebbe essere mossa per aver negli ultimi anni centrato il messaggio pubblicitario sull’italianità del grano impiegato. Origine che nulla rileva ai fini della qualità della pasta. Ma del resto la comunicazione del food si nutre delle fisime incoscienti di consumatori asini.

La boutade si è conclusa, com’era inevitabile, con le scuse dell’azienda molisana, l’abiura del nome dei formati incriminati e la rimozione del testo contenente le parole indicibili. Il sospetto che qualche geniaccio del marketing abbia aizzato di proposito, e a loro insaputa, i talebani del politically correct è forte. In fondo il marchio ha dominato incontrastato per giorni, fissandosi con la forza del putiferio nell’immaginario comune. D’ora innanzi le uniche Abissine, oops, conchigliette, che ricorderemo sono quelle sinuose su fondo azzurrino del pastificio molisano.

I laici avranno simpatizzato per i pastai martiri del nuovo radicalismo, i moralisti gioito per le “cancellazioni” ottenute.
Una campagna da 10 e lode , insomma, che ha saputo usare la propensione al farisaismo delle masse social addicted.
Crasse risate e segrete pernacchie è lecito immaginare abbiano potuto animare le stanze della dirigenza del pastificio.

Ora che la questione è dipanata e il campo sgombrato dalla polemica, è possibile proporre qualche riflessione storico gastronomica.

Nel chiasso e nella foga della polemica superficiale, senza capo né coda, si sono confusi obiettivi, argomenti e pregiudizi.
Un errore nel testo in effetti c’era ed era il riferimento al «sapore littorio». Un sapore che non è mai esistito in gastronomia. Forse l’unica sostanza collegabile a quell’espressione è l’olio di ricino e non certo la pasta.

Una metafora fastidiosa, dunque, neutralizzata con l’uso di un aggettivo che non implica un giudizio su quell’epoca e quell’olio: sicuro. Ma che vuol dire «sicuro sapore littorio»? Nulla

La pasta, del resto, in epoca fascista fu incriminata dai futuristi. Ritenuta responsabile della fiacchezza del soldato italico e della conseguente vulnerabilità dell’esercito, fu vilipesa nel manifesto della cucina futurista. Per il gruppo avanguardista, e per Marinetti in particolare, il cibo era un’esperienza multisensoriale. Il carneplastico è forse una delle preparazioni più mirabolanti teorizzate dal movimento artistico e praticate alla taverna Santopalato (1931) a Torino. Nel menù figurava dopo l’aerovivanda e l’ultravirile e prima del paesaggio alimentare. I futuristi liguri, per salvare i ravioli dalla furia antipastaiaola, dovettero inviare una supplica a Marinetti, chiedendo una specifica dispensa.

Mussolini, che era un pragmatico, se ne infischiò delle argomentazioni futuriste. Preso atto della inestirpabile propensione italiana al consumo di pasta e degli altri prodotti farinacei tentò di rendere il nostro paese indipendente dalle importazioni di grano. Da questo obiettivo nacquero straordinarie sperimentazioni di Nazzareno Strampelli, agronomo, già dal primo novecento impegnato nello studio del miglioramento delle rese dei frumenti.

La Battaglia del grano, cui potrebbe alludere con la campagna della Molisana «solo grano italiano», fu condotta da Mussolini per il tramite della sapienza di Strampelli, ma non bastò a conseguire l’obiettivo dell’autarchia. Ottenne, tuttavia, fenomenali risultati in termini di riduzione del deficit della bilancia commerciale.

Le vicende della pasta in Italia, dunque, all’inizio del secolo scorso si sono effettivamente intrecciate con quelle della politica e dell’arte. Hanno avuto un rilievo forse misconosciuto a molti. Se dovessimo addossare una colpa alla Molisana le imputeremmo di aver perso l’occasione di ispirarsi a vicende pregnanti, preferendo banalizzare.

Una banalità miccia della stupida e storicamente ignorante polemica che ne è seguita.

Una fuffa gigantesca.

Tutto come di regola nel tempo buio che viviamo.