I martiri del trumpismo
Alcuni cronisti hanno paragonato i confusi, nonché grotteschi, accadimenti di Capital Hill all’assalto del Palazzo d’Inverno o alla presa della Bastiglia. Altri, invece, hanno insistito sulla peculiarità epocale del trambusto di Washington, credendo di scorgere una specie di punto di non ritorno della storia in cui le leggi della contrapposizione politica così come le conoscevamo sono andate in crisi, oppure assaporando, magari perversamente, il brivido della democrazia, “la più grande democrazia occidentale”, alle prese con un golpe karmico, con un golpocchio karmico.
Tuttavia, a prescindere da ogni possibile inquadramento o inquadratura, quel che è certo è che gli statunitensi, in virtù del materiale umano proteiforme di cui dispongono inesauribilmente, sono riusciti ancora una volta a sorprendere l’opinione pubblica planetaria, come solo loro sanno fare. Coniugando alla perfezione, con perizia chirurgica, una forma di delirio del singolo con la performance di piazza, con lo scimmiottamento della rivoluzione, con l’ingresso sacrilego, peraltro indisturbato, nel tempio della rappresentanza. Allo scopo di infliggere patriottici castighi, più o meno simbolici, ai presunti mistificatori della volontà popolare, ai paladini del voto via posta. Come in un qualsivoglia action-movie profetico mal scritto.
Chiamati a raccolta da Trump, gli assalitori, muniti di eccentricità, ordigni rudimentali, bandiere dei Confederati, taser, pistole, fucili, cappellini “Make America great again” e altri gadget meno sobri, non si sono risparmiati. Hanno vandalizzato le aule del potere, sloganeggiato roboticamente e prodotto persino qualche martire. Grazie alla lapalissiana connivenza delle forze dell’ordine. Largamente infiltrate, come dimostrato da numerose inchieste, da alcune frange del suprematismo bianco vicine al presidente uscente: infiltrazioni che potrebbero riguardare anche i vertici delle catene di comando e non solo pattugliatori e agenti antisommossa, se si considera l’inaudito cedimento degli standard minimi di sicurezza laddove avrebbero dovuto essere elevatissimi.
In poche parole, il turbinoso trumpismo di lotta ha senza alcun dubbio restituito al mondo l’immagine di un’America incredibilmente vulnerabile. Di una vulnerabilità che nessuna elezione benefica e nessun barricamento istituzionale ben congegnato riusciranno a nascondere, perché annodata allo spirito del tempo. E lo spirito del tempo, per definizione, sa essere piuttosto testardo nel proporsi, soprattutto sulla sponda nordoccidentale dell’Atlantico. Tardive le prese di distanza e tardivi gli imbarazzi di buona parte della “nomenklatura” repubblicana. Certe fratture sono difficili da ricomporre.
Ma come si è arrivati alla deriva di Capital Hill?
Per spessore psicologico-culturale, Donald Trump è talmente imbarazzante che a confronto Stifler di American Pie sembra Henrik Ibsen. Ciononostante, o proprio per questo, ha saputo interpretare in modo impeccabile “il bisogno di bugie del contribuente americano”, mai domo in tempo di crisi. Costruendo una macchina propagandistica quasi perfetta. Sfruttando a pieno regime le falle dei nuovi mezzi di comunicazione. Andando in all-in sul decadimento della verità, sul commercio delle illusioni. Rivolgendosi a un auditorium in larga parte privo di prospettive, ammaliato da una vaga idea di ritorno al futuro, in balia di dinamiche socioeconomiche strangolatorie, di pulsioni razziste o razzistoidi, e alla ricerca disperata dell’autoinganno, di ambizioni oniriche incastonate nelle narrazioni nostalgiche di qualche baby boomer. Un auditorium disposto a credergli, letteralmente, fino alla morte. Disposto a morire fideisticamente in difesa della menzogna, di una smisurata menzogna.
Disposto a morire di negazionismo. Concettaccio dal potenziale applicativo, purtroppo, illimitato. Dalle molteplici configurazioni. Tutte deliranti, tecnicamente deliranti. Come tutto ciò che si fonda sulla negazione o sulla sostituzione della realtà contro ogni evidenza, contro ogni logica. Che si chiacchieri con i piccioni al parco, che si contesti l’Olocausto, che si disconosca la pandemia o la sfericità della Terra o che ci si immoli a vanvera nelle stanze dei bottoni di Capital Hill sguarniti della benché minima prova di brogli elettorali, cambia poco.
Delirare è delirare. E quando il delirio diventa una categoria diffusa dell’agire politico, cannibalizzando il patriottismo, e le contromisure per contenerlo sono a basso contenuto calorico, di solito non succede nulla di buono nel medio-lungo termine. “La storia insegna, ma non ha scolari”, direbbe Gramsci. I 74 milioni di voti incassati da Trump durante le ultime elezioni non dovrebbero far dormire sonni tranquilli. Anche nel paese che, più di ogni altro paese al mondo, suole aggrapparsi nei momenti bui alla metafisica della democrazia.