L’ultimo mattatore: la morte di Gigi Proietti svela illusioni di mondi antichi
La morte di Gigi Proietti è stata particolarmente simbolica, quasi paradigmatica.
La luce di cui ha brillato la sua stella fino al 2020 proveniva da remote distanze, dalla combustione di mondi lontani, ormai oscuri e scomparsi, ma ciò faceva sì da poterli credere ancora parti del nostro universo attuale.
La fine del mattatore
La formazione di Proietti, così come quella dei suoi modelli, proveniva dal teatro della metà del secolo scorso, ancora, in Italia, strettamente legato alle sue radici ottocentesche. Ad oggi potrebbe essere difficile da immaginare, ma la traiettoria che, subito dopo il Rinascimento, parte dalla Commedia dell’Arte, giungendo prima al tempo del Grande Attore e infine, e siamo già ormai al secolo scorso, a quello del mattatore, è molto netta e breve.
Quella produzione a canovaccio, in genere distribuita da piccole e stracciate compagnie ambulanti, da cui nasce già il capo-comico, per poi identificarsi sempre più in ruoli recitativi gerarchici, si ritrova sopravvissuta sulla scena del novecento.
Praticamente fino al dopoguerra, il teatro italiano era ancora costituito da compagnie, spesso con contratti ma altrettanto spesso no, organizzate al massimo da un impresario, ex capo-comico, composte da gruppi che si scioglievano e riformavano ma che presentavano precisi ruoli al loro interno: dal grande attore-mattatore al generico.
Fu l’esempio organizzativo del Piccolo di Milano e l’avvento del Teatro di Regia a darne un primo colpo al cuore. In reazione a questo, una generazione invase le cosiddette cantine, cercando di ripristinare un valore attoriale che rigenerasse dai secoli e dai millenni precedenti. Da queste sperimentazioni vennero fuori delle peculiarità che non avrebbero potuto far scuola, come quelle di Leo de Berardinis e di Carmelo Bene.
Gassman e Proietti
Proietti le attraversò giusto per affinare meglio le sue doti tecniche per poi continuare a suo modo quello che Gassman aveva già fatto: portare il teatro del mattatore verso un pubblico vasto, prima forse anche popolare ma poi piccolo-borghese. Il grande Vittorio approfittò della sua ormai universale fama sia per spingersi in apparizioni cinematografiche sia per permettersi il suo personale teatro, incentrato tutto sulla sua potenza scenica.
L’attore romano, invece, avendo avuto poco a che fare con la Commedia all’italiana, a causa del poco spazio ottenuto sul grande schermo, si è trovato a perpetuare le caratteristiche del mattatore, cioè dell’attore capace di portare a sé lo sguardo dello spettatore (non per niente esplode con “A me gli occhi please!”), nei decenni delle fiction televisive e delle farsesche pellicole cinepanettoriali (anch’esse, in fondo, legate al modello della compagnia teatrale con dei ruoli definiti, replicati, quasi da maschere). Ha dovuto, così, ridurre le capacità tecniche a sketch sempre più facili per un pubblico sempre più di bocca buona.
Dal mattatore indietro fino a Plauto
Dai pezzi scritti da Lerici, come quello dell’Attore di estrazione popolare, alla barzelletta, il passo è stato obbligato. Questo non toglie nulla a tutto il suo lavoro, prima nelle varie rappresentazioni teatrali, poi nelle fatiche gestionali ed organizzative che lo hanno portato a ricreare un teatro di tipo elisabettiano, cioè quello shakespeariano del XVII secolo.
Non solo Gigi Proietti è stato l’ultimo dei mattatori ottocenteschi fuori tempo, ma era ancora l’ultimo legame, addirittura fisico, con il teatro plautino: basti confrontare la sua mimica alle espressioni delle maschere atellane.
E questo non è solo un dato riguardante la storia del teatro e della letteratura ma addirittura antropologico.
L’illusione linguistica
Altra illusione ottica che la luce dell’attore ha creato riguarda la possibilità di una lingua dialettale, antica e popolare. Proietti, nel suo amore per Roma, era solito accentuare la sua identità territoriale e, specialmente, linguistica.
Eccolo quindi, sempre, ad usare, in maniera precisa, un lingua in parte proveniente dall’ex idioma dei quartieri popolari ma, molto di più, costruito su un romanesco letterario del tipo cristallizzato dal Belli, giocando con i suoi suoni e mille volte destrutturandolo per ironizzare sulle sue sonorità peculiari, fino ad approdi quasi surreali.
Ma quel dialetto romano, passato per Trilussa e Pascarella, era ormai un dato letterario, spentosi pian piano nei sobborghi romani dove gli uffici e le grandi aziende nazionali avevano attirato milioni di italiani dal sud e dal nord-est. La Roma capitale dello stato unitario, con la sua veloce corsa al cemento e al lavoro impiegatizio, aveva soverchiato quella che negli ultimi secoli era rimasta un avamposto ecclesiastico circondato da rovine spopolate.
Non esisteva più quella lingua perché non esisteva più quel romano. Questo è avvenuto man mano nell’arco dei decenni, fino ad un adeguamento linguistico del sottoproletariato e infine ad un indefinito agglomerato piccolo borghese, dopo l’estinzione del milanese e torinese con l’industrializzazione e prima della fine del napoletano, protrattosi più a lungo, sino agli anni ’90.
Infatti, ipoteticamente, sarebbe del tutto concepibile un mondo, interamente occupato al centro dal ciclo produzione-consumo, che avesse come lingua la sola lingua tecnologica: tutte le altre lingue potrebbero essere tranquillamente concepite come «superflue» (o come sopravvivenze folcloristiche in lenta estinzione).
Diario linguistico, Pier Paolo Pasolini
I singoli attori che hanno invaso la produzione cinematografica, provenendo dalle tavole di legno e dai vicoli (ricordiamo Totò raccontare di aver iniziato addirittura con le metodologie della Commedia dell’Arte, in una Napoli che per ultima ha continuato a trascinare le maestrie dei capo-comici e dei primi attori), ci hanno riportato, prima in bianco e nero e poi anche a colori, segni e tinte di altri luoghi e di altri tempi.
Attore e alterità
Figure di quel tipo erano portatrici di alterità: un enorme bagaglio costruito nei secoli veniva riportato grazie a volti, gesti e vocalità. L’italiano al cinema o nel salotto gustava quella diversità, altrimenti sconosciuta, ma anche contemporaneamente la osservava come foto sul comodino, a ritrarre gli avi da cui si era fortunatamente progredito ma che rimandavano simpatia, velando un sotterraneo senso di colpa.
Come può oggi, in un mondo così globalizzato, dove l’oralità non si sviluppa nella comunicazione del foro, del mercato, dei carruggi, dei teatri di strada, esserci un’alterità? Come può mai rappresentarla un’umanità digitale e digitante, ridotta alla comunicazione di macchina, dal ridotto vocabolario dell’inglese tecnologico, in cui lo scambio avviene a livello di rappresentazioni logico-semantiche su un monitor preformattato? In che modo può scandalizzare chi cresce, sia in Giappone o sia nel Texas, con i video di tendenza su TikTok?
Profezie mancate
L’ultimo ottimismo del secolo scorso fu nelle profezie di avvento di uomini nuovi dalla profonda Africa che
distruggeranno Roma / e sulle sue rovine / deporranno il germe / della Storia Antica.
con i visi neri invocati da Picasso o nei liberi corpi amorosi ritratti da Gauguin. Ma la Tahiti di Pierre Loti non è più il viaggio verso un matrimonio con il vero, bensì un luogo di resort di lusso, e le grandi distanze sono solo secondi in più per la camera di un drone.
Muore Proietti e ci rendiamo conto che la luce di tante stelle che hanno continuato a brillare viene dal passato, mentre il nostro mondo è andato avanti in una decisa direzione. E quel mondo antico, che dal teatro greco fino al cinema novecentesco, viveva di uguali rituali, con la processione verso l’attore e l’attesa del buio o del sipario aperto, è finito da tempo, in realtà già da decenni. Anni in cui una strenua lotta ha visto pochi eroi cercare di trovare nuove impossibili strade.
Ma questa è un’altra Storia.
Il disegno è di Ferdinando Silvestri: laureato in fisica, ha capito da un pezzo che la sua strada è quella delle matite. Quando non disegna, divide la sua vita tra famiglia, karate e lettura.
Con questo si chiude un ciclo di tre articoli attraverso i quali, grazie all’analisi critica di Yuri Di Gioia, Sonar ha esplorato l’arte di Gigi Proietti.