Prove tecniche di lockdown

L’Italia rischia di morire come ha sempre vissuto, al di sopra delle proprie possibilità. Un altro lockdown, figlio, forse, di politiche estive sin troppo spensierate, è nell’aria. Un altro lockdown, che proprio non potremmo permetterci, sta per abbattersi sui risparmi degli italiani. Un altro lockdown, dovuto più all’impreparazione rituale di chi governa a qualsiasi livello che all’ineluttabile, si prepara a contenere la crescita esponenziale del contagio favorendo la crescita esponenziale dell’indebitamento pubblico. Affossando il futuro della nazione.

La tensione sociale, prevedibile, prevedibilissima, elettrifica le piazze a ogni latitudine. Da Catania a Milano, penuria di scontrini vuol dire scontri di piazza. Una rivolta. Con tutti i crismi: molotov, cassonetti bruciati, barricate. Una rivolta degli aperturisti, aperturisti per spirito di sopravvivenza, contro lo Stato, che antepone, di nuovo, la salute pubblica all’economia perché, a questo punto, non può fare altro. E contro i chiusuristi, chiusuristi per spirito di sopravvivenza, che antepongono il rischio di fame d’aria al rischio di fame tout court.

Una guerra civile strisciante, tramutatasi in guerriglia. Agitata, pare, in alcuni casi, da regie occulte diffuse (gruppi eversivi e criminalità organizzata). Regie occulte diffuse che però, anche se documentate, non vanno a menomare di una virgola la consistente disperazione esibita dal manifestante medio, memore della depressa contabilità del trimestre primaverile e degli inadeguati indennizzi, ricettivo alle forze del mercato più che ai numeri del contagio.

D’altronde, superata la deadline dell’incertezza economica tollerabile, l’istinto di autoconservazione fa un salto di qualità, e la paura di ammalarsi e di far ammalare, magari gravemente, passano in secondo piano. Le probabilità di finire in ospedale impallidiscono al cospetto della certezza di dover perdere tutto e di non riuscire a sfamarsi: la pura biologia soccombe, s’afferma l’esistenza.

A veder bene, a veder meglio, una guerra civile incivile. Non perché infiltrata dal camorrista in cerca di caos per preservare l’integrità dei propri traffici o perché fomentata dall’eversivo scassaiolo di turno nostalgico dei cori da stadio, bensì perché preparata da una filiera governativa inaccettabile, incapace di approntare una risposta neanche lontanamente adeguata a un problema sanitario di facile previsione.

Un governo che si costringe e costringe a scegliere, drammaticamente, tra salute ed economia, nonostante i numerosi avvertimenti di autorevole provenienza sulla seconda ondata epidemica, dimostra di essere, senza giri di parole, un governo fallimentare.

Si è deciso, scientemente, per l’impreparazione. E ora si vuol spacciare un’impreparazione scientifica per un risultato randomico dovuto all’irresponsabilità estiva del cittadino comune, a zonzo tra le anfrattuose coste italiche con tanto di bonus vacanze. Si è detto, persino, a discolpa, che nessuna rete sanitaria al mondo, anche la più efficiente, poteva reggere l’urto dell’autunno virale. Eppure, a parte i cugini d’Europa, se si guarda a Est, gli esempi virtuosi non mancano. Giappone, Corea, Thailandia, Nuova Zelanda, Australia e Cina (con riserva) esibiscono curve epidemiologiche da stropicciamento oculare. Pochissimi casi, ben contenuti e con metodologie di tracciamento diversificate. All-in sulla prevenzione e niente stress per gli ospedali. Bastava prendere appunti, invece si è preferito, di fatto, ripuntare sul lockdown, ma a rate. Si è preferito ripuntare sul buio poliziesco.