Un sedile di un autobus scomodo come una casa
La casa di Rosa Parks in mostra a Napoli
Se avessi vissuto in un a casa della segregazione razziale, sarebbe stato importante, come minimo, ricostruirla, in modo da non farla diventare una prigione senza finestre in cui sentirsi costretti, un contenitore dalle pareti spesse e impermeabili da cui non far uscire nessun grido, ma piuttosto una casa aperta, ben salda a terra, piena di porte e finestre. Sarebbe divenuto per me un imperativo categorico trasformare completamente questa casa.
Toni Morrison, dal saggio “Home”, 1998
La Fondazione Morra Greco esce dai confini dei propri spazi ed entra nel Palazzo Reale di Napoli per presentare il progetto “Almost Home – The Rosa Parks House Project” dell’artista statunitense Ryan Mendoza. Realizzato con il sostegno della Regione Campania e in collaborazione con la Direzione regionale Musei Campania, il progetto prevede l’esposizione della casa dell’attivista afroamericana Rosa Parks, colei che con un gesto di rifiuto diede il via nel 1955 al boicottaggio dei mezzi di trasporto nella città di Montgomery, diventando un’importante simbolo della lotta per i diritti civili degli afroamericani.
L’artista Ryan Mendoza avrebbe voluto far spuntare dal nulla quell’umile casetta di legno davanti nientemeno che alla Casa Bianca. Così come nascono i muri di confine e di discriminazione tra uno Stato e l’altro di un’America che attualmente non lo entusiasma, ma che è pur sempre il suo Paese.
La casa di Rosa Parks, “riscattata” per 500 dollari dalla nipote dell’attivista, sarebbe dovuta essere abbattuta con altre 80.000 case condannate dalla crisi della città di Detroit. All’inizio degli anni Sessanta, il rinnovamento urbano e la costruzione di autostrade hanno distrutto 10.000 strutture a Ditroit, causando lo sfollamento di oltre 40.000 persone, il 70% delle quali afroamericane. Più recentemente, la crisi degli alloggi, i pignoramenti e le demolizioni hanno spazzato via la città, lasciando molti edifici abbandonati e lotti liberi.
«Per oltre 40 anni» dice l’artista «queste quattro pareti e il suo tetto sono stati una casa. È stato il luogo in cui il fratello di Rosa Parks ha cercato di creare una vita migliore per la sua famiglia dopo il ritorno dalla seconda guerra mondiale. Quando la famiglia se ne è andata nel 1982, i ricordi hanno continuato ad aggrapparsi alle tavole di legno esterne, ma la casa era diventata una casa come tante. Quando nel 2013 è stata inserita in una lista di demolizione, il significato attribuitole è cambiato di nuovo, è diventata più di un numero di una lista: un segno del declino di Detroit. Le autorità locali ci dissero che andava abbattuta, l’unica chance che aveva era portarla via di lì: così è nato il Rosa Parks Project».
Una casetta di sette metri cubi appena, dove Rosa Parks visse fino al 1982 con il fratello, la cognata e 13 nipoti, in un modo promiscuo, simile a quello dei “bassi” napoletani. Ricorda Mendoza: «negli Stati uniti è stata un po’ dimenticata perché lei non era una semplice sartina stanca, come i negazionisti affermano, ma era già un’attivista che si era schierata a favore dei diritti civili. Dopo l’atto di disobbedienza che le valse l’arresto per “condotta impropria” e il boicottaggio da parte della comunità di colore, che per 381 giorni non usufrui più del trasporto pubblico per protesta, Rosa Parks venne rilasciata ma non ebbe vita facile: perse il lavoro, ricevette minacce. Finché, sollecitata dai parenti che già si erano trasferiti in un nord, secondo loro, più liberal, nel 1957 li raggiunse a Deacon Street, a Detroit. Dormivano tutti in tre camere da letto, alternandosi uno a testa e l’altro ai piedi, i maschi in una stanza e le femmine in un’altra: E Rosa dormiva sul sofà. Quella casa ci parla di lei in ogni suo dettaglio: quando apriva la porta girando il pomo che ancora vediamo, quando camminava a piedi scalzi sulle tavole di legno del pavimento, o quando saliva le scale».
Questo piccolo edificio, che il fratello Sylvester McCauley aveva comprato con grandi sacrifici riuscendo in una impresa impossibile per gli afroamericani del suo tempo, e alla quale Rosa aveva contribuito con 250 dollari, rappresenta non solo l’impegno della cosiddetta “madre dei diritti civili” ma riscrive la storia di questo impegno anche nelle zone del nord America. «Aree del paese – sottolinea l’artista, citando le parole della storica Jeanne Theoharis – apparentemente ospitali, ma che invece si dimostrano altrettanto ostili nei loro confronti». Storia che non smette ancora di essere scritta se ci limitiamo al solo e attuale caso di George Floyd.
Nel settembre del 2016 la casa, entrata in possesso di Ryan Mendoza, ridotta ad un mucchio di assi di legno danneggiati, viene ricostruita nel giardino dalla casa dell’artista a Berlino. Per accoglierla, Mendoza costruisce una base in cemento nel suo cortile, tra il suo studio e il condominio, nel quartiere di Wedding e inizia a lavorare mettendo di nuovo insieme gli assi della casa.
Nel 2018 la casa ritorna negli Stati Uniti grazie ad un finanziamento di 500.000 dollari da parte della Brown University che aveva proposto anche di cambiare nome in Rosa Parks University.
Il New York Times aveva verificato la storia, recandosi a Detroit per intervistare una vicina di casa di 92 anni, la signora Baldwin, che ricordava nei dettagli la vita che avveniva in quella casa.
Cinque ore dopo la pubblicazione dell’articolo la Brown University blocca il finanziamento adducendo vaghe “ragioni legali”.
La scuola prende il nome da un’importante famiglia mercantile i cui membri furono commercianti di schiavi del Rhode Island. Quando nel 2006 questa eredita è venuta alla luce, ne è nato un profondo dibattito interno all’istituzione che ha portato all’idea di rimpatriare la casa di Rosa Parks.
Sotto all’articolo del NYT appare un commento: «Se rimani bloccato a lamentarti del passato, non avrai mai l’energia di affrontare i problemi del presente». Il commento è firmato da uno degli eredi della famiglia Brown. Il finanziamento si blocca e non se ne fa niente.
«La casa – per Mendoza – offre un’opportunità unica di considerare come Rosa Parks viene ricordata, portando a ripensare il modo in cui commemoriamo la storia americana. Jeanna Theoharis mette in discussione il modo in cui la narrazione storica su Rosa Parks ha in realtà ridotto l’impegno di una vita nell’attivismo a un pomeriggio in cui si discute per un posto su un autobus».
Rosa Parks ricordava di aver fatto la guardia da piccola sul portico insieme a suo nonno, che aveva un fucile a portata di mano. «Volevo vederlo uccidere un membro del Ku Klux Klan».
La vita gli ha permesso di fare di più e di meglio.
Ora la casa è arrivata a Napoli dove rimarrà in mostra fino a fine dicembre.