Non esistono “terre del male”: tutti possiamo diventare Joker
La provincia felix. Che non è Lecce o il Sud, è provincia, punto. Con la sua calma, i suoi pettegolezzi, la sua qualità della vita, le sue virtù pubbliche e vizi privati. Una normalità che spesso nasconde drammi, perversioni, crudeltà. Che li cova fino a farli esplodere: e allora tutti poi a puntare il dito, a farsi Soloni, a urlare il proprio “buttate la chiave!”. Così, il mostro viene chiuso tra quattro mura, forse per anni, forse per sempre, e tutti possono dormire tranquilli. Forse.
È questo l’inciampo mentale che viviamo di fronte a questi giorni. Lo sgomento di un mostro che gira fra noi, lo strazio di due famiglie, il sangue, le coltellate, il sospetto che serpeggia. Ma banalizzare non serve, non riporta in vita nessuno e non previene. E se allora è vero l’adagio secondo cui “nessuno nasce cattivo” bisogna chiedersi cosa incattivisca a tal punto da trasformarci in una specie di demonio. Perché un assassino lombrosianamente simile al cattivo tranquillizza le nostre candide anime pensando “ce l’aveva scritto in faccia”, ma un ragazzetto taciturno di 21 anni, faccia d’angelo, aspirazioni da infermiere, ci sconquassa proprio perché “non ha la faccia da assassino” e ci porta a pensare a quanti assassini possiamo aver incontrato nella vita.
Quello che occorre ancora una volta è provare ad entrare nella testa altrui. Ma non perché questo si trasformi nella “banale” perizia psichiatrica che procura uno sconto di pena, ma per interrogarci su chi siamo. Una domanda che spesso spaventa, alla quale rispondiamo pavidi dicendo “io non potrei mai fare una cosa del genere”.
Partiamo dal cinema e dalla letteratura. In Delitto e Castigo il giovane Raskòl’nikov mette a punto un omicidio dettato da pura ostilità sociale: quello della vecchia usuraia che gli affitta il misero appartamento in cui vive. Una persona insospettabile, che alterna però gaiezza e disperazione, “Qualche volta, tuttavia, non è affatto nevrastenico, ma freddo e insensibile fino ad essere disumano sul serio, proprio come se in lui si avvicendassero due caratteri opposti”, come descrive il suo amico Razumichin, protagonista secondario del romanzo. In Un borghese piccolo piccolo di Mario Monicelli, invece, Alberto Sordi interpreta il ruolo di un modesto impiegato che vive la mediocrità borghese senza lode né infamia. Fin quando il figlio rimane ucciso, colpito da una pallottola vagante nel corso di una rapina in banca. Un Sordi straordinario nella pellicola sottrae l’assassino del figlio alla giustizia per trasformarsi nel suo aguzzino: una resa di fronte alla moralità e alla “normalità” che quella borghesia avrebbe dovuto trasmettere. E poi, ancora, la più recente versione di Joker, quella con Joaquin Phoenix, dove un uomo tormentato dalla vita e ripetutamente ignorato e deriso si trasforma da clown in uno spietato assassino.
Perché queste opere hanno riscosso così successo? Perché attraggono da tempo immemore il pubblico? Forse perché raccontano il male dentro di noi, raccontano quello che rischiamo di diventare, raccontano la crudeltà di persone “normali”, l’ “orrore senza ragione”, ma anche la malattia mentale, l’impazzire, la perdita del controllo. Raccontano di una linea retta, la nostra vita, che per cause che conosciamo ancora troppo poco (nonostante il dottor Freud), si interrompe e diventa una spezzata schizofrenica. Ed apre un pozzo senza fondo di domande a cui non sappiamo rispondere: perché l’ha fatto? È pazzia? È crudeltà? Qualcuno aveva mai notato nulla? Quei silenzi si potevano interpretare? E, ancora, perché una persona che opera a stretto contatto con la vita e la morte per mestiere non passa da controlli serrati sulla propria stabilità?
Resta che non c’è giustificazione, non c’è risposta allo strazio. Non c’è pace per due giovani innamorati che muoiono crudelmente nel loro nido una sera di fine estate. Porsi queste domande non vuol dire cercare di sgravare qualcuno dalle proprie responsabilità, non vuol dire cercare di giustificare, ma accettare che il mostro è fra noi. Non viene da un iperuranio. È che tutti noi possiamo scoprirci, un giorno, assassini per lucida crudeltà, per rabbia o per malattia mentale.
Dobbiamo accettarlo per interrogarci su cosa è accaduto in via Montello, Lecce. Primo Levi diceva, a proposito del grande dramma dell’Olocausto che “se comprendere è impossibile, conoscere è necessario, perché ciò che è accaduto può ritornare, le coscienze possono nuovamente essere sedotte ed oscurate: anche le nostre”: mutatis mutandis è quello che dovremmo fare ogni volta che il mostro colpisce, anche se la tentazione più grande è “gettare via la chiave”.
Dalla notte dei tempi si uccide, senza ragione, si uccidono innocenti, si uccidono madri, padri, figli. A Sud come a Nord, in ricchezza e povertà, nella paesello e nella metropoli.
Perché non esistono terre delle male: il male è dentro di noi.