Visual Protest, un Chiostro per Banksy
Può sembrare scontata, certo, ma una cosa va detta subito: la Street Art vive nella strada. E non è solo una questione terminologica. È nella strada infatti che, piacciano o meno, le migliori opere respirano, dialogano, si confrontano e si scontrano con il pubblico, costituito spesso da semplici persone di passaggio che per un istante si trasformano in fruitori di un’arte che sta parlando proprio a loro, al di fuori di altri e più istituzionalizzati luoghi espositivi.
Tutto ciò, in maniera sorprendentemente orizzontale, è vero tanto per autori meno noti e dal limitato raggio di azione mediatico o geografico, quanto per quegli artisti che a livello globale sono identificabili come i maggiori e più significativi esponenti della street art tout court.
Un nome su tutti, inevitabile, è quello di Banksy. L’anonimo artista inglese è da quasi due decenni una delle figure di riferimento della stencil e più in generale della street art stessa. Le sue opere, le sue azioni – dagli stencil sul muro della Cisgiordania all’intero Walled Off Hotel di Betlemme, dalla “residenza” di un mese a New York nel 2013 alla distruzione del suo Girl With Baloon durante un’asta di Sotheby’s, e fino al “disaster movie” Exit Through the Gift Shop, da lui prodotto – riescono a calamitare l’attenzione mediatica e del pubblico ai quattro angoli del pianeta. Ultimo, in ordine cronologico, il suo finanziamento della Luoise Michel, una nave che a partire da fine Agosto si occupa fattivamente di soccorrere i migranti nel Mar Mediterraneo.
Insomma, con una straordinaria capacità comunicativa, una chiara e netta visione politica e la costruzione di immagini dalla presa immediata, Banksy si colloca oggi come uno dei più importanti artisti viventi, con buona pace delle tante – e a volte condivisibili – critiche di molti addetti ai lavori.
Se quanto espresso nell’incipit è vero, se è la strada la dimensione ottimale delle sue (e non solo) opere di street art, come valutare le numerose mostre che a cadenza sempre più fitta vengono allestite con le opere di Banksy in giro per il mondo?
Innanzitutto è ben noto come l’artista e il suo entourage ne prendano dichiaratamente le distanze, c’è addirittura una sezione sul suo sito ufficiale a questo proposito.
È certamente vero, inoltre, che togliere, prelevare, smontare porte, muri, cartelloni dalla strada (come avvenuto, fra i tanti episodi citabili, con la porta del Bataclan di Parigi) per esporli – decontestualizzandoli – nelle sale di un museo o, peggio, per chiuderli in collezioni private, contraddica alla radice l’intento espressivo dei lavori di Banksy
Tuttavia, molte delle mostre in giro per il mondo a lui dedicate sono il risultato di una raccolta di stampe seriali, pezzi unici, illustrazioni e oggetti che Banksy stesso ha pensato come opere non di strada ma destinate a un pubblico diverso: amici, collezionisti o semplici appassionati. È il caso, in questi giorni, di “A Visual Protest”, l’esposizione ospitata al Chiostro del Bramante di Roma fino al prossimo 11 aprile, fra le cui sale si sussegue proprio questo genere di lavori.
E allora.
Domanda: perché è comunque lecito visitare una mostra di questo genere se manca quella componente così importante che è la strada? Le risposte sono molte e richiederebbero spazi di riflessione ben più ampi. A nostro parere, però, basterebbe sottolineare che, in fondo, gli intenti di una mostra possono essere legittimamente diversi da quelli specifici dell’artista. Una mostra – se ben fatta – raccoglie, mette in fila, seleziona, costruisce discorsi, agganci ad altri autori o periodi storici, avanza ipotesi o contestualizza il lavoro di Banksy. In breve, svolge un altro compito. E se Banksy è ormai un nome arcinoto, capace di scavalcare e beffare il pubblico tradizionale dell’arte contemporanea, allora, probabilmente, mostre, saggi e cataloghi su di lui hanno il sacrosanto dovere di svolgerlo questo compito, provando a leggerne criticamente forme, modi e messaggio.