I giovani afroamericani muoiono di polizia
Secondo uno studio apparso sul periodico ufficiale della National Academy of Sciences, l’essere uccisi da un agente di polizia durante un arresto rappresenta una delle principali cause di morte dei giovani statunitensi in età compresa tra i 25 e i 29.
I decessi provocati in un anno dalle forze dell’ordine, prendendo in esame l’ultimo decennio, superano mediamente quota mille (25,2 volte di più rispetto alla media delle altre nazioni economicamente sviluppate). E se si è afroamericani le probabilità di abbandonare questo mondo per mano dello Stato sono di 2,5 volte superiori. In sintesi, un giovane afroamericano su 1000 è destinato a “morire di polizia”.
Numeri sconcertanti. Così com’è sconcertante la percentuale degli agenti impuniti coinvolti in questa strage “fisiologica”: il 99% circa. Statistiche da dittatura poliziesca in playback. Sulle quali incidono da una parte la negligenza del Dipartimento di Giustizia e l’inadeguatezza degli strumenti giuridici finalizzati al perseguimento degli agenti dalla pistolettata facile, dall’altra la grande diffusione tra i civili delle armi da fuoco, che costringe i tutori dell’ordine a una condizione di allerta permanente e a una reattività abnorme.
Per intenderci, affinché un poliziotto omicida subisca ripercussioni penali non basta dimostrare un utilizzo eccessivo della forza, bisogna altresì provare che nell’azione poliziesca vi sia stata l’intenzione di violare i diritti costituzionali della vittima. Il che rende i tentativi di incriminazione piuttosto complicati, alzando di molto la percezione di impunità, legittimando, di fatto, l’adozione avventata di comportamenti violenti rivelantesi spesso nefasti, frustrando il desiderio di giustizia dei parenti delle vittime.
Curioso che ciò avvenga in un Paese che, nel primo decennio degli Anni Zero, ha fatto dell’esportazione della democrazia il proprio marchio di fabbrica. Dati tali presupposti, anziché parlare di esportazione, sarebbe stato forse più opportuno parlare di delocalizzazione della democrazia. Peraltro, con esiti non proprio convincentissimi.
Il clima da guerra civile a intensità variabile che dall’uccisione di George Floyd avviluppa gli States in una spirale di scontri di piazza di cui si fatica a vedere la fine non può sorprendere un osservatore attento, essendo il frutto di una tensione discriminatoria strutturale destinata a una resa dei conti ormai non più prorogabile. La questione razziale, che quasi sempre coincide con la questione sociale, non ha mai conosciuto risoluzione nella multietnica società americana, nonostante l’elezione di un presidente nero. E il trumpismo, con il suo sistematico sdoganamento del lato oscuro dell’America profonda tanto temuto dal senatore McCain, ha contribuito ad aumentare il voltaggio del conflitto.
Un recente rapporto dell’FBI sulla ventennale minaccia terroristica legata al suprematismo bianco mette in guardia sulle numerose adesioni a movimenti neonazisti e al Ku Klux Klan riscontrate tra le fila dei corpi di polizia. L’anno scorso 60 agenti del Border Patrol sono finiti nell’occhio del ciclone per alcuni commenti agghiaccianti rilasciati all’interno di un gruppo Facebook, con oltre 9000 iscritti, interamente dedito alla misoginia e al razzismo. Qualche settimana fa, il vigilantes diciassettenne Kyle Rittenhouse, dopo aver ucciso due manifestanti durante le proteste targate Black Lives Matter, ha potuto girare indisturbato sotto gli occhi dei poliziotti presenti imbracciando un’arma semiautomatica. E l’elenco di episodi che definiscono il “Black System” (giustizia sommaria applicata in estemporanea dalla polizia – o da truppe ausiliarie – nei riguardi di componenti, spesso disarmati, della comunità nera) potrebbe andare avanti sine die.
Per i giovani afroamericani lo Stato rappresenta una minaccia reale, più del terrorismo o del Covid, i numeri parlano chiaro. Chi detiene il monopolio della violenza con lo scopo della conservazione del diritto a vantaggio di tutti, di fatto, sfrutta tale monopolio per reiterare impunemente il delitto mirato, il delitto razziale, facendosi supportare, all’occorrenza, da giustizieri improvvisati. Una prassi consolidata che mina pesantemente le fondamenta e la credibilità internazionale di un regime politico che ama definirsi, non senza autocompiacimento, “la più grande democrazia del mondo occidentale”. Definizione che, come minimo, dovrebbe garantire l’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge e che, invece, si traduce in un avvitamento narcisistico, in un’ubriacatura onirica completamente avulsa dalla realtà: una realtà fatta di disuguaglianze formali, sociali ed economiche pronte ad esplodere.
Il sogno americano, conficcato indiscriminatamente nell’immaginario collettivo, ma ormai praticabile solo da una cerchia ristretta di sognatori, somiglia sempre più a un incubo grinzoso tenuto in vita a forza di botte poliziesche.