Il tiro al bersaglio sugli immigrati

Due ragazzi a bordo di uno scooter hanno sparato a un giovane nigeriano con una pistola a piombini. Per fortuna, la vittima non versa in condizioni gravi.

È accaduto nella periferia di Foggia. Una zona in cui le aggressioni e le sassaiole contro i braccianti agricoli ricorrono con una certa regolarità.

L’anno scorso, proprio di questi tempi, degli immigrati che stavano andando a lavoro in bicicletta furono presi a sassate da due ventenni del posto successivamente arrestati per lesioni pluriaggravate. Un gambiano vittima di quell’attacco rischia di perdere la vista.

Anche in questi giorni l’allerta è massima e la prefettura del capoluogo pugliese, in virtù del susseguirsi di episodi di violenza legati alla discriminazione razziale, ha deciso di irrobustire la sorveglianza a tutela degli immigrati.

I quali, dopo essere miracolosamente sfuggiti agli atroci campi di prigionia libici finanziati dal governo italiano e dopo essere sfuggiti alla morte in mare, come se non bastasse, devono pure misurarsi con un regime di sfruttamento sistematico, con una narrazione politica contraddittoria che li vorrebbe tanto dediti alla pacchia quanto al furto del lavoro, e con le iniziative violente di chi da quella narrazione è sobillato. Dallo “scatolone di sabbia” allo scatolone di rabbia. Beati loro!

Gli antichi romani coniarono la figura giuridica dell’homo sacer per indicare colui che viveva ai margini della società perché estromesso dalla medesima e, quindi, in quanto tale, passibile di ogni malefatta. Sacer è traducibile con “affidato agli dei”. Una posizione che destituiva il cittadino romano di ogni diritto e che lo trasformava in un non-cittadino danneggiabile impunemente, in nuda vita extragiuridica, alla mercé del capriccio divino, per l’appunto.

L’immigrato contemporaneo, in terra italica, non se la passa molto meglio del vecchio homo sacer. In balia di una condizione giuridica oscillatoria, del caporalato e della capricciosità del razzistucolo violento di turno, si colloca una spanna al di sotto della definizione di “carne da macello”. Un concetto che il friulano Antonio Calligaris, consigliere regionale in quota Lega, riassumerebbe con le seguenti parole, magari tra una sbaciucchiata di crocifissi e l’altra: “Io gli sparerei tranquillamente a quelli lì”. Parole che, facendo scalo a Grado, trovano eco nel “pensiero” del responsabile della Protezione Civile Giuliano Felluga: “Non preoccupatevi, stiamo organizzando gli squadroni della morte e nel giro di due giorni riportiamo la normalità… Quattro taniche di benzina e si accende il forno crematorio, così non rompono più”. Il protettore civile si riferisce allo spegnimento creativo di una rivolta di migranti all’interno di una caserma. L’idea di “protezione civile” che se ne deduce risulta incredibilmente prossima all’idea di “soluzione finale”.

In sostanza, i funzionari pubblici e i dirigenti di partito indicano la strada, la sdoganano, mentre i disperati la intraprendono. L’agire sociale si fa esecutore materiale, braccio armato, strumento ebete e criminale, di una volontà politica più o meno manifesta con cui, di fatto, non ha alcun interesse in comune.

Il povero ha accettato che esistono i poveri, che sono la maggioranza e che egli stesso ne fa parte. Ma anziché prendersela con quelle condizioni che determinano la proliferazione incontrollata della povertà o con coloro che le difendono a spada tratta, se la prende con chi è ancora più povero, con il sacrificabile dei tempi moderni, il migrante. La caccia al nero sostituisce la lotta di classe. Il “tutto il razzismo minuto per minuto” fa crescere i consensi. Il delitto è perfetto.