Ricordo di Maria Callas: la sua vera lezione teatrale
Non sono intervenuto con nessuna riflessione sulla Callas nell’anniversario della sua morte. Di proposito. Quel giorno di 40 anni fa ero seduto sulle scale del Provveditorato di Roma e aspettavo la nomina definitiva per un incarico d’insegnamento di italiano e latino nei licei. Mi ero portato una radiolina, perché volevo ascoltare un mio intervento registrato per un programma radiofonico. L’intervento fu interrotto dalla voce di Fedele D’Amico che annunciò la morte del soprano. Riecheggiando il poeta di Recanati: Lingua mortal non dice quel ch’io sentiva in seno. Da allora, la sua morte, nel ricordo, è sempre associata a quel tuffo al cuore sulle scale del Provveditorato di Roma. Anche allora sentii dire e scrivere tante sciocchezze. Come quelle ascoltate e lette di recente. Fedele D’Amico aveva invece già allora ribadito in che cosa consistesse la vera rivoluzione operata dalla Callas nella rappresentazione di un melodramma: non già il recupero del “bel canto”, né tanto meno l’esibizione del miracolo di una voce “straordinaria”, che anzi la voce della Callas era sì estesa ma disuguale.
La vera rivoluzione stava nell’avere ristabilito il primato dell’attrice, della drammaturgia, sull’edonismo vocale, ma differentemente dall’allora trionfante pratica veristica, riconduncendo la recitazione alla corretta espressione del canto. Non nel senso, dunque, di accentuare i gesti realistici, di obbligare la voce a trucidi effetti di parlato, come faceva il verismo, bensì in quello d’impostare drammaturgicamente proprio l’intera scrittura vocale, anche l’abbellimento, sentito come parte integrante della recitazione.
Un esempio illuminante di questa impostazione del canto piegato alla recitazione sta nella scena di Leonora sotto la torre dove si trova rinchiuso Manrico, all’inizio del quarto atto del Trovatore. A un certo punto Leonora dice: sento mancarmi. E la voce davvero si affievolisce. O nel brano che l’ha resa famosa: Casta diva. Bisogna ascoltare, però, tutta la scena, non la sola cavatina di Norma. Prima di attaccare l’aria ascoltate allora come la Callas intona la frase “il sacro mirto io mieto”. E poi ascoltate la successiva, virtuosistica cabaletta. Le fioriture si fanno espressione dell’eccitazione di Norma al ricordo dei primi tempi del suo amore con Pollione. Ecco, qui sta il punto: la recitazione consiste non già nel dare rilievo all’effetto realistico delle parole pronunciate, bensì nell’espressione drammatica del canto, la voce dice qualcosa, ma la sua espressione dice altro.
Ricordo che i grandi soprani del primo Ottocento erano ammirati soprattutto per le loro capacità drammaturgiche, alla lettera, capacità di costruire il dramma, di riscriverlo con l’interpretazione. E’ ciò che i tedeschi chiamano, giustamente, Drammaturgie, e hanno in proposito inventato la figura del Drammaturg, chi riscrive le azioni sceniche del dramma che si deve rappresentare. Che non è il regista, anche se può coincidere con la figura del regista. Ma proprio chi riscrive la drammaturgia pensata da Shakespeare, da Verdi, da Wagner.
Nel teatro tedesco fu Goethe a impostare in questo modo la rappresentazione teatrale. Parallelamente al lavoro di Lessing e dei fratelli Schlegel. Fece storia la sua messa in scena dell’Amleto a Weimar, in abiti moderni, e con alcune scene riscritte dallo stesso Goethe, che comunque ricopriva il ruolo del principe danese, e sembra che fosse affascinante. Non si stenta a crederlo.
La Callas faceva, ai giorni di oggi, qualcosa di molto simile. Riscriveva, cioè, la drammaturgia del personaggio. Adelaide Ristori, la più grande attrice italiana dell’Ottocento, racconta nelle sue memorie che quando cominciò a recitare Shakespeare, Racine, Alfieri (sembra che fosse sublime la sua Mirra), il suo modello fu Isabella Colbran, che interpretava l’Ermione e la Semiramide rossiniane. Rossini, tra parentesi, era il modello musicale e drammaturgico perfetto anche per Schopenhauer. Ma in realtà per tutta l’Europa, musicale e no, di allora. E questo vale per chi ancora si ostina a sostenere il valore puramente esornativo dei virtuosismi vocali rossiniani.
Ecco, volevo ribadire solo questo. Come quarant’anni fa aveva fatto Fedele D’Amico: che la rivoluzione della Callas fu, prima di tutto e soprattutto, teatrale, e non solo musicale, o meglio, che restituì il suo senso drammatico al canto, dimostrò che si poteva, anzi si doveva, recitare sempre, quando si canta un melodramma. Ma non già scimmiottando il realismo di certi attori, o, peggio, di certi cantanti, bensì appunto che bisogna recitare con il canto.
La Callas è stata quanto di più vicino io abbia mai ascoltato all’idea sublime del recitar cantando. I tempi in quegli anni non erano maturi. Ma sono sicuro che sarebbe potuta arrivare a darci un insuperabile Monteverdi. Ma perché sognare e desiderare ciò che non è stato? Riascoltiamo il finale della Gioconda – una musica mediocre che la Callas rende intensissima – e si capisce d’un botto che cosa sia recitare cantando. Si pensa quasi a Greta Garbo. Il confronto non sembri blasfemo. Ma una commedia tutto sommato mediocre come La Dama delle Camelie nell’interpretazione di Greta Garbo diventa sublime.
In margine, vorrei dire a chi ha curato il doppiaggio italiano del commento originale francese alla Nuit de l’Opéra, trasmesso da RAI 5, che in italiano il termine soprano è sempre maschile, come maschili sono mezzosoprano e contralto. Il termine non si riferisce, infatti, al genere di chi canta, ma al rigo della polifonia, e nasce nel Quattrocento. In francese, e in spagnolo, è sentito come femminile, solo perché in queste lingue è stato introdotto dalla diffusione europea del melodramma italiano, a Settecento ormai inoltrato. Dava perciò immenso fastidio sentire dire, alla televisione italiana, “la soprano Maria Callas”, “la grande soprano”. Ma mi chiedo: a un orecchio italiano non stride l’articolo femminile accostato a un nome maschile?