Studiare non serve più a nulla

«Martina ha 22 anni. Studiava Scienze dei Beni Culturali. Ma recentemente ha deciso di rinunciare al suo sogno per seguire quello di suo padre, deceduto a causa del coronavirus: tenere aperta l’edicola di famiglia. […] Ora si alza ogni mattina alle 6 per gestirla. Una scelta difficile, ma davvero bella, empatica».

«Rossana, dopo la laurea il ritorno in fattoria: “Ero un’educatrice, ora mi sveglio alle cinque e mezza per le mie mucche”»

La storia di Martina è stata raccontata nei giorni scorsi in questo post del Partito Democratico che ha suscitato accese polemiche. Quella di Rossana è apparsa invece il 9 luglio nella rubrica di Repubblica “Cambio vita, vado in campagna”, dedicata ai ragazzi e alle ragazze, «spesso laureati», che hanno deciso «di lasciare la loro occupazione per dedicarsi al lavoro nei campi» Più in generale, nell’ultimo periodo, la narrazione politico-mediatica pullula di storie di giovani che abbandonano gli studi universitari o ripongono nel cassetto il titolo già acquisito e, complice la crisi, ripiegano su lavori meno qualificati e attività familiari preesistenti, come l’edicola del papà di Martina o l’azienda agricola dei genitori di Rossana.

È giusto che il giornalismo e la politica diano conto di un fenomeno sociale in costante crescita, osserverà legittimamente qualcuno. È un po’ meno giusto, forse, che quotidiani e soprattutto partiti sedicenti progressisti riportino queste storie con toni commossi, quasi deamicisiani, insistendo non senza una certa ipocrisia sullo spirito di sacrificio, il coraggio e l’ammirevole flessibilità del giovane di turno.

Il trend è evidente: il Partito democratico, la nuova Repubblica targata Agnelli-Elkann e più in generale quella strana nebulosa che qualcuno ancora si ostina a chiamare sinistra italiana hanno avviato una campagna per la descolarizzazione della società, forse in una malintesa applicazione del vecchio saggio di Ivan Illich: al diavolo l’università, trastullo per oziosi; sveglia alle 5:30 (per i dormiglioni facciamo pure le 6:00); sano ritorno alla vita pastorale, alla bottega, alle tradizioni avite.


Intendiamoci: non si tratta di difendere il maggiore prestigio o la superiore remuneratività del lavoro cognitivo. L’allevatore e l’edicolante sono mestieri degnissimi, oggi indubbiamente più stabili e meglio retribuiti della guida museale o dell’educatore. E la civiltà postindustriale, ormai, si sta talmente avvitando su sé stessa che molti, novelli Coriolano e Thoreau, tornerebbero volentieri al lavoro dei campi o alla vita nei boschi.

Qui il punto è piuttosto un altro: continuare a descrivere come scelta dei giovani ciò che in molti casi dipende dalla mera costrizione materiale, dalla mancanza di alternative tangibili, dalla colpevole assenza delle istituzioni, è indice di disonestà intellettuale e di miopia politica assoluta. Certo, le singole situazioni personali non vanno mai strumentalizzate, né in un senso né nell’altro; ed è chiaro che lasciare l’università, espatriare, dedicarsi a un’attività professionale molto lontana dalle competenze acquisite possano dimostrarsi in certi casi delle ottime scelte di vita. Ma, premesso questo, siamo proprio sicuri che migliaia di laureati vadano di buon grado a fare i lavapiatti a Londra, o che tanti studenti abbandonino a cuor leggero gli studi per lavorare come riders o centralinisti in un call center?

A non voler liquidare la questione con faciloneria, le domande da porsi restano tante. Ci si potrebbe ad esempio chiedere quale ruolo giocano, in queste parabole esistenziali, la fatica di conciliare studio e lavoro, ma anche tempo di lavoro e tempo di vita; la frustrazione per tutti i cv cestinati, gli stage non retribuiti, i master e le specializzazioni inutili, la rassegnazione per un futuro che sembra non arrivare mai. E, ancora, ci si potrebbe chiedere quanto sono gravi le responsabilità di una classe dirigente che ha smesso da decenni di fare serie politiche scolastiche, per il lavoro, per il Mezzogiorno; che non investe nella ricerca e lesina sui servizi e i sussidi agli studenti privi di mezzi rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana» significa ancora qualcosa?); che all’orientamento scolastico e alla qualità della didattica preferisce il marketing per attrarre studenti-consumatori; che, incapace di leggere le trasformazioni socioeconomiche e tecnologiche degli ultimi anni, non sa e non vuole creare lavoro qualificato, stabile, creativo, valorizzando così le professionalità del paese; che non riesce ad avere un buon numero di laureati in discipline tecnico-scientifiche ma nemmeno a rivitalizzare la sua immensa tradizione umanistica; che ciancia continuamente di rimettere la scuola al centro del dibattito e vagheggia un’Italia che potrebbe vivere di turismo ma poi, farisaicamente, incoraggia una laureata in Scienze dell’educazione a produrre formaggi e una studentessa in Beni Culturali a mollare gli studi per salvare un’edicola.

La verità è che l’establishment neoliberale e “progressista” di questo paese, incredibilmente ancora capace di accreditarsi come “sinistra”, sta attivamente collaborando a intonare il de profundis a un’università pubblica già da tempo moribonda e specialmente alle sue facoltà umanistiche, che non sfornano professionisti spendibili sul mercato del lavoro e dunque denaro sonante per le imprese. Le ragioni di questa deprimente campagna di descolarizzazione e dell’abbandono dell’università al suo destino sono almeno due.

La prima è che la politica, dopo aver trasformato l’accademia in un corso di formazione e di reclutamento aziendale, ha ormai definitivamente dismesso la concezione dell’istruzione come strumento universale di elevazione culturale, sociale ed economica. Se, come cantava Paolo Pietrangeli, un operaio degli anni Settanta poteva sperare in un figlio dottore, oggi il rischio molto serio è che si torni invece a un mercato del lavoro in cui la figlia dell’edicolante debba fare per sempre l’edicolante, il figlio del disoccupato il disoccupato, il figlio del notaio il notaio, mentre per gli esclusi restano a disposizione soltanto il limbo della gig economy, il ricatto del workfare o, nella peggiore delle ipotesi, l’abbandono alla legge della giungla, che essa si manifesti sotto forma di criminalità organizzata, marginalità sociale, povertà assoluta. Una sorta di feudalesimo capitalista, insomma, in cui – tra caste cristallizzate e ascensore sociale rotto – la lotta si fa sempre più brutale e al ribasso, il titolo accademico può seriamente diventare un handicap e, in un rovesciamento del sogno di Contessa, è il dottore a volere il figlio operaio, così almeno non sarà un precario per tutta la vita.

A questa dolorosa impasse hanno sicuramente contribuito i limiti e le finzioni di quel processo di democratizzazione della cultura andato in scena in Italia a partire dagli anni Sessanta. A un’istruzione gentiliana, severa e apertamente classista, se n’è lentamente sostituita un’altra che simula inclusione, prepara ben poco e dispensa 30 e lode ma che de facto si limita a spostare fuori dell’università pubblica i veri centri di reclutamento professionale e di promozione sociale, costante appannaggio dell’élite di sempre. Già Antonio Gramsci, ipotizzando nei Quaderni del carcere futuri scenari di allargamento della popolazione studentesca, aveva esortato a «resistere alla tendenza di render facile ciò che non può esserlo senza essere snaturato». Il pensatore sardo aveva allora formulato una previsione pessimistica: «Se si vorrà creare un nuovo strato di intellettuali, fino alle più grandi specializzazioni, da un gruppo sociale che tradizionalmente non ha sviluppato le attitudini conformi, si avranno da superare difficoltà inaudite». Quelle difficoltà inaudite non si è potuto né voluto superarle; per farlo, infatti, sarebbe stato necessario costruire un’università inclusiva e al contempo davvero formativa e di qualità per tutti. Un compito titanico, di fronte al quale più di un funzionario del Miur avrà giudicato conveniente tornare all’elitismo gentiliano.

La seconda ragione di quell’invito nemmeno troppo celato a lasciar perdere gli studi è legata invece alla stretta attualità. In attesa della crisi d’autunno, che si preannuncia tra le peggiori degli ultimi decenni e potrebbe rivelarsi esiziale per l’economia nel caso di una seconda ondata di Covid, la classe dirigente italiana ha cominciato a mettere pesantemente le mani avanti: «Ci aspettano tempi foschi, di lacrime e sangue», è il succo del suo discorso. «E in tempi come questi non c’è posto per i fronzoli accademici, per il sogno di coltivare le proprie inclinazioni, per il desiderio di maturare intellettualmente: tutte robe da bamboccioni. Questi, invece, sono tempi per la gente del fare, per gente che si arrangia con quello che c’è e non piagnucola con malsane velleità di crescita personale, di miglioramento della propria condizione. Questi lussi lasciamoli ai rampolli dell’élite, con le loro università private, le loro case di proprietà a Prati e Brera, i loro master da trentamila euro, perché di essi è il regno dei cieli». Insomma, non avendo nulla da offrire (ci sarebbero da intaccare gli attuali rapporti di proprietà), la politica prova a spacciare come dato naturale e ineluttabile ciò che sarebbe oggetto di contesa e di radicale trasformazione, ma anche a pubblicizzare come desiderabili destini professionali ed esistenziali già scritti, cui invece dovrebbe tenacemente opporsi.