Le Vele del post-Gomorra
Giovedì sera Deborah De Luca, la dj nata a Scampia e ora famosa in tutto il mondo, ha registrato un live da una delle terrazze della Vela Gialla. Per quasi due ore la musica e il video mapping su una delle facciate hanno trasfigurato lo scenario notturno dell’edificio, mostrando in modo spettacolare che su una architettura così polarizzante una percezione estremamente negativa ci mette poco a trasformarsi nel suo opposto.
L’arte e la creatività trovano terreno fertile nei luoghi flessibili, negli incompiuti, negli spazi in cui tutto sembra impossibile. Le facciate e i muri interni delle Vele di Scampia sono popolate di street art, portano addosso messaggi, segni e disegni di artisti e abitanti.
Le Vele hanno spesso attratto chi non ci abitava. Sono state osservate, filmate e fotografate da giornalisti e artisti di ogni parte d’Europa, come riconoscibile icona drammatica di ogni ipotizzabile guaio delle periferie d’Italia.
Negli ultimi mesi sono tornate al centro dell’attenzione mediatica.
Cosa sta accadendo a questi edifici e perché?
Il 20 Febbraio è iniziata la demolizione della Torre, la Vela verde, operazione ultimata qualche giorno fa. Tre delle sette Vele costruite negli anni ‘70 erano già state abbattute circa venti anni fa da Bassolino. Le condizioni del contorno, invece, in vent’anni, sono profondamente cambiate.
Le Vele occupano solo uno dei ventuno lotti che costituiscono Scampia, quartiere da record: il più verde e il più storicamente temuto di Napoli. Gli edifici progettati da Franz di Salvo negli anni ‘60 del secolo scorso furono concepiti in un periodo in cui in tutta Europa i progettisti rispondevano al boom economico e demografico con megastrutture residenziali, che nella maggior parte dei casi non hanno funzionato nella loro utopica concezione unitaria di abitare collettivo. Né le persone né l’architettura hanno avuto una buona sorte nelle unità di abitazione, come il Corviale a Roma, il Forte Quezzi a Genova, l’Unité d’Habitaciòn a Marsiglia, Bijlmermeer ad Amsterdam. Gli esempi simili nel mondo sono numerosissimi.
Occupati ancora incompiuti a seguito del terremoto del 1980, iperdensificati e privi di servizi, questi edifici a tenda, soprannominati Vele per analogia formale, sono sorti in un’area nord di Napoli originariamente agricola. Ancora incompiuti, dai primi anni ‘80, si trasformarono in un condensatore sociale per sfollati e persone in difficoltà, un ghetto isolato e disconnesso dal centro, in cui nel tempo le attività criminali e lo spaccio hanno trovato terreno fertile in assenza di altre opportunità lavorative.
Nella periferia generica di Napoli nord, le Vele hanno un’immagine architettonicamente forte, sono un landmark territoriale. Che piacciano o meno, sono diventate icone del paesaggio urbano.
Creata la fama, oggi persistono gli ultimi residui dello stigma.
Lo stigma sociale si è progressivamente sovrapposto a quello formale, idea che sta portando alla demolizione degli edifici quale soluzione per la rigenerazione urbana, e per dare alloggi dignitosi a tutte le famiglie che vivono da decenni in condizioni precarie.
Le condizioni di inabitabilità sono state imputate quasi unicamente alle configurazioni architettoniche e strutturali, alla presenza di materiali tossici, e al degrado, ma non possono essere esaminate senza considerare la storia sociale del luogo, la pressione dovuta all’altissima densità, l’assenza di manutenzione e di servizi agli abitanti.
Originariamente gli edifici erano sette: quattro nel lotto M e tre nel lotto L. Le vele abbattute da Bassolino nel lotto L sono state sostituite da palazzine gialle di quattro piani, dove centinaia di famiglie hanno trovato un alloggio dignitoso, ma dove la città è stata architettonicamente impoverita.
Il problema non possono essere solo i palazzi, gli oggetti, le cose. Senza l’uomo, che le interroga e le usa, le cose sono corpi morti. Gli uomini fanno e disfano i luoghi, i giudizi e i pregiudizi.
E mentre qualche giorno fa i primi turisti olandesi guidati da un tour di Local in Naples si sono affacciati a visitare questi edifici, andando oltre i soliti circuiti turistici venduti ai visitatori, i residenti restano divisi tra chi non desidera altro che la demolizione e chi prova un legame affettivo con questo paesaggio urbano, per storia collettiva o memoria personale.
Mentre le Vele vanno giù, che succede nel quartiere?
A Scampia è in atto una silenziosa rinascita culturale. Dall’esterno si può dire che sia favorita da alcuni investimenti importanti come la nuova stazione della metropolitana, la facoltà di medicina della Federico II e dal progetto del Comune di Napoli “RESTART Scampia”. Chi attraversa e vive le strade del quartiere può trovare la vibrazione in atto nelle attività diffuse di associazioni, gruppi, attivisti e liberi cittadini, che lavorano per e con la comunità.
RESTART Scampia sta attuando una strategia di rigenerazione urbana che punta a convertire questa zona da margine urbano a nuovo centro dell’area metropolitana. Rispetto agli edifici in questione, la strategia prevede la demolizione di tre delle quattro Vele restanti nel lotto M e la realizzazione di nuove case. Non sappiamo come saranno, ma se la storia si ripete potrebbero essere simili per tipologia e carattere a quelle realizzate a fianco. La strategia del Comune prevede che solo la Vela blu resterà, come simbolo, memoria e monumento, a seguito delle opere di ristrutturazione, bonifica di amianto e sostituzione delle famose passerelle in cemento con altre in acciaio.
Oltre che nelle opere strutturali, sarà però fondamentale una gestione intelligente e comunitaria, strumento cruciale per la vita dello spazio, e per abilitare tutti i valori negati che questo luogo merita. Viene da chiedersi: se è possibile recuperare un edificio, perché non tutti?
Sul tabellone della fermata del bus a via Labriola c’è scritto “noi non siamo Gomorra”. Non sarà la tabula rasa delle Vele ad attivare il post-Gomorra. Il processo è già iniziato.