La prematura fine sociale dell’epidemia
Non che ci sia uno scarto incommensurabile tra razionalità e comportamento collettivo, ma è evidente che la percezione dell’epidemia in terra italica si sia piuttosto alleggerita nelle ultime settimane. Forse troppo. Perché se da una parte è acclarata la discesa della curva del contagio, con i ricoveri in terapia intensiva ormai ridottisi al 2,5% del picco e i ricoveri totali ridottisi al 5,2% del picco, è altrettanto innegabile che a livello planetario gli scenari appaiono molto diversi, con aumenti esponenziali dei casi di positività. La qual cosa, in teoria, non dovrebbe consentire eccessi di relax, considerando la natura pandemica della circolazione virale e le recenti riaperture delle frontiere nazionali.
Eppure, dicevamo, pare che una certa linea di pensiero iperottimistica, spesso allattata anche da esperti delle alte sfere mediche, stia prevalendo nel comune sentire. Una linea di pensiero che inocula lassismo veicolando il messaggio che “la guerra è finita”, che quella che stiamo vivendo è la coda a bassa intensità del fenomeno epidemico, che il virus potrebbe essersi indebolito, che, al massimo, potremmo cimentarci in una nuova ondata, più blanda, in autunno inoltrato. Una linea di pensiero che, al netto dei contenuti di verità sui cui poggia, implica, di fatto, una perfetta fusione di orizzonti tra psicologia sociale e metabolismo economico (desideroso di tornare a pieno regime) e che, proprio in virtù di tale fusionalità d’orizzonti, se presa troppo alla lettera, rischia di rivelarsi incredibilmente sospetta, nonché dannosa. Basti pensare a ciò che sta accadendo in Cina, Corea e Nuova Zelanda. Paesi dimostratisi all’altezza nel contenere la trasmissione virale, ma messi recentemente alla prova dall’accendersi di nuovi focolai di importazione.
Gli storici della medicina, avvalendosi di studi condotti sull’epidemie del passato, tendono a scomporre in due piani narrativi la tormentata chiusura del capitolo epidemico. Secondo tali studi la fine vera e propria di un’epidemia, la fine sanitaria, si verifica quando crollano l’incidenza del contagio e l’indice di mortalità, mentre la fine sociale si verifica quando sparisce la paura della malattia, oppure quando si sviluppa, per stanchezza emotiva, una diffusa sensazione di pace armata, o quando, ad avvenuto acclimatamento forzoso, prende forma la cosiddetta convivenza col virus.
Non è neanche detto che la fine sociale preceda di necessità la fine sanitaria. In contesti epidemici con tassi di letalità decisamente più elevati la paura di un ritorno di fiamma del contagio può sopravvivere al di là di ogni ragionevole previsione ottimistica. Evenienza che, probabilmente, ci conduce, per antitesi, a ciò che sta avvenendo in Italia.
Covid-19 si è dimostrata una patologia piuttosto polimorfa dal punto di vista dell’espressione clinica. Con un’incidenza di casi gravi, pressoché circoscritti a una fascia d’età avanzata, non così significativa rispetto ad altre malattie pandemiche e con un enorme quantitativo di casi asintomatici o paucisintomatici. Aspetti che, sotto il profilo epidemiologico, ne hanno favorito la propagazione, ma che, al contempo, sotto il profilo psicologico, hanno ridotto la percezione del pericolo, favorendo, specialmente nelle zone meno colpite, una prematura fine sociale dell’epidemia.
E davvero non si capisce se sia in atto un processo di rimozione collettiva da manuale, altrimenti definibile come disturbo da aperitivo categorico, oppure se, una volta tirate le somme e considerata l’inarrestabile flessione della curva epidemica nostrana, si sia attivato, nelle teste italiche, un repentino ridimensionamento della reale minaccia costituita dal SarsCov2. Quel che è certo è che le 34.678 vite spezzate dal virus non sono state il frutto di un’allucinazione corale. Quel che è certo è che le rigidissime misure di confinamento e di distanziamento fisico hanno permesso un miracoloso contenimento del contagio evitando di incrementare chissà di quanto il numero dei morti. Quel che è certo è lo stato di incertezza in cui ci troveremo senza la distribuzione su larga scala di un vaccino e con un allentamento nel monitoraggio e nella gestione sociale dell’evoluzione epidemica. La probabile stagionalità del virus potrebbe non essere una buona notizia sul lungo termine.