Raffaello McDrive: l’effetto del coronavirus sulla visita alle mostre
Prenotazione online, niente visite improvvisate. L’orario di ingresso è esatto, si prega di non ritardare. Obbligo di mascherina. Sanificare le mani. Mantenere la distanza di almeno due metri dagli altri visitatori nelle sale dell’esposizione.
Le regole ferree per andare a vedere la mostra “Raffaello. 1520-1483” alle Scuderie del Quirinale di Roma riprendono grossomodo le disposizioni che da alcune settimane siamo chiamati a osservare in diversi luoghi pubblici, adattandole al contesto espositivo.
Nessuno stupore, dunque. Anzi, una certa soddisfazione quando, giorni fa, abbiamo appreso che la mostra – come fortunatamente è avvenuto in altri casi – è stata prorogata. Quel 2 giugno previsto inizialmente come data di chiusura si è trasformato nella data di riapertura dopo il lock-down, mentre il termine della mostra è stato posticipato al 30 agosto. Bene. Perché la brevissima apertura ai primi di marzo aveva fin da subito trasmesso la sensazione di una mostra necessaria, di una degna occasione per celebrare a Roma i cinque secoli dalla morte dell’artista urbinate nel 1520.
Oltretutto, per il pubblico interessato alle arti le disposizioni che limitano e regolano gli ingressi non sono qualcosa di completamente nuovo.
La necessità di ingressi contingentati, per rimanere solo in Italia, riguarda ormai da anni diversi significativi e delicati luoghi d’arte da nord a sud. La Cappella Scrovegni di Padova e il Cenacolo vinciano a Milano, la Galleria Borghese di Roma o la sala dei Bronzi di Riace nel Museo Archeologico di Reggio Calabria sono solo alcuni notevoli esempi in cui particolari esigenze conservative, legate alla delicatezza delle opere esposte rispetto ai flussi consistenti di visitatori annuali, hanno reso necessarie misure drastiche di alleggerimento nella gestione degli ingressi al pubblico, sia in termini numerici sia per quanto riguarda il tempo di visita.
Piuttosto, ciò che in questa circostanza fa riflettere è uno strano, inevitabile, ribaltamento dei ruoli. Le regole di accesso servono, di solito, a evitare che la presenza dell’uomo, il suo respiro, i movimenti meccanici di centinaia di passi, l’umidità e il peso dei corpi intacchino il delicato equilibrio conservativo delle opere: il pubblico-massa fa la parte del leone, l’anello debole sono le sculture, gli affreschi o le stesse strutture architettoniche destinate alle esposizioni.
Con le nuove misure per la riapertura dei luoghi culturali a seguito del coronavirus, invece, ci accorgiamo drammaticamente – come se non fosse stato abbastanza chiaro nei lunghi mesi di lock-down – che i deboli siamo noi. Il distanziamento sociale ci porta passo dopo passo fra le sale a guardare di sottecchi il nostro vicino di sala col timore di venirne in contatto, mentre Baldassarre Castiglione, la Fornarina o il vecchio Giulio II della Rovere se ne stanno tranquilli a guardarci dalle tele di Raffaello, immuni al virus e magari finalmente rinfrancati dopo decenni di esposizione a centinaia di occhi contemporaneamente.
Ma la cosa più drammatica è che, benché sanificato, mascherato a dovere, distanziato e contingentato all’uopo, regola vuole che il tempo di permanenza in una sala per ogni gruppo sia di cinque miseri minuti. Al suono della campanella ecco pronto il gruppo successivo a godersi i suoi trecento intensi secondi di celebrità riflessa davanti alle opere. Vietato, inutile dirlo, pensare di tornare indietro a riprendere qualche filo nel percorso di visita e di osservazione.
Non è il fastidio da mascherina in un caldo giorno di fine giugno, non è la necessità di prenotazione con largo anticipo e nemmeno l’attenzione al distanziamento fra umani (che in fondo sono spesso fra loro dei perfetti sconosciuti) il vero problema di questa mostra al tempo del coronavirus. È, piuttosto, questo terribile, breve suono che pone fine ai nostri cinque minuti in ogni sala a rendere drammaticamente spuntata – celibe, parafrasando Marcel Duchamp – la visita: nella prima sala si prendono le misure, cercando di capire bene come muoversi seguendo le frecce e i segnali sul pavimento. Dalla seconda parte il dramma: leggere le didascalie o concentrarsi sulle opere? Questo piccolo, preziosissimo schizzo a matita o l’incisione di Marcantonio Raimondi non ci faranno giocare secondi preziosi da poter spendere davanti alla grande tela che abbiamo alle spalle? E via così, tra primo e secondo piano, in questo “Raffaello McDrive” in cui volenti o nolenti ci troviamo catapultati.
In fin dei conti, le misure paiono ineludibili, inaggirabili. Come dicevamo, è già molto aver letto della proroga, quando la mostra sembrava cadere nell’oblio dopo la visita a marzo di un ristretto numero di happy few. Forse, se qualcosa resta dopo questa strana visita, è quel sapore amaro di una libertà passata, la libertà di gironzolare fra le sale, dribblare i gruppi organizzati che si affollano davanti ai capolavori, creare un proprio libero percorso di visita, seguendo gli studi, gli interessi o le conoscenze personali, le connessioni o le suggestioni che rendono l’andare a una mostra – insieme a tanto altro – un momento di consapevolezza personale e non un mero pellegrinaggio passivo davanti al Grande Artista di turno.
Non dimentichiamolo questo sapore quando – speriamo al più presto – ritorneremo a vagare liberi negli spazi museali.