Le statue, i sepolcri imbiancati e il Montanelli che è nel maschio borghese italiano
In questi giorni di manifestazioni radicali e globali del movimento Black Lives Matter, sollecitato dalla estenuante disputa sulla statua di Indro Montanelli, è tornato di attualità un grande classico del nostro paese: l’idea che il razzismo sia un problema che ci riguardi poco, una faccenda su cui in fondo noi italiani siamo già a posto così. Non potendo ignorare le leggi razziali e i crimini di guerra in Africa, i fautori di questa posizione (in genere i cosiddetti ‘moderati’) tendono a derubricarli come il frutto malato dell’ubriacatura fascista e a sostenere che se l’Italia ha conosciuto un razzismo esterno, coloniale, al suo interno però è sempre stata nel complesso una società etnicamente pacificata. Una nazione di brava gente, insomma.
Questa impressione, del tutto ingannevole, è dettata dal fatto che la questione è stata a lungo inesistente nel nostro paese e solo negli ultimi decenni, con l’aumento delle migrazioni e la lenta formazione di una società multietnica, ha cominciato timidamente ad accedere al nostro dibattito pubblico. Mentre nazioni come l’America e l’Inghilterra affrontavano già da secoli la questione razziale e venivano squassate dalle lotte per i diritti civili degli afroamericani, l’Italia restava per quasi tutto il Novecento un paese bianco ed etnicamente omogeneo. Ma la rimozione o, meglio, la mancata emersione del problema non significa affatto che il problema non esista: l’Italia degli anni Zero, che pure comincia ad avere percentuali rilevanti di cittadini stranieri regolarmente residenti (l’8,7% della popolazione, secondo il Rapporto Caritas-Migrantes 2019), è per tanti aspetti ancora un paese-ghetto, che da un punto di vista etnico funziona per compartimenti stagni. Da questo punto di vista, i violenti conflitti che agitano il mondo anglosassone sono paradossalmente sintomo di uno stadio storico più avanzato del nostro, perché testimoniano la pressione sullo spazio pubblico delle minoranze oppresse che rivendicano i loro diritti, laddove l’apparente quiete italiana nasconde in realtà una palude di ineguaglianze e soprusi che solo negli ultimi anni alcuni movimenti come quello dei braccianti guidato da Aboubakar Soumahoro stanno cominciando a denunciare.
Per avere una controprova di queste affermazioni, a prima vista forse un po’ apodittiche, sarebbe interessante sottoporre alcune semplici domande all’italiano bianco medio. Anche tralasciando chi si considera apertamente neofascista o razzista – gruppo che a torto continuiamo a definire una ‘minoranza’ – sarebbe forse ora di chiedere, e di chiedersi: quanti neri e, più in generale, quanti non occidentali frequentano le nostre università, appaiono in televisione, fanno attività politica, occupano posizioni di prestigio e di potere nel nostro paese? Quanti neri e, più in generale, quanti non occidentali vediamo invece lavorare nei campi, rischiare la pelle sulle impalcature dei cantieri, lavare i vetri ai semafori o vendersi sui marciapiedi?
E ancora: quanti neri conosciamo di persona? Fatta forse eccezione per i teenager delle grandi città, quanti amici neri abbiamo? E quanti neri consideriamo colleghi, medici e avvocati di fiducia, cittadini a tutti gli effetti? Quanti di noi, anche senza cattiva intenzione, danno indistintamente del tu a ogni nero con cui parlano, utilizzando quel tono accondiscendente che di norma si usa con i bambini?
La verità è che in Italia quella che un tempo si sarebbe chiamata questione razziale non è affatto risolta, in primo luogo poiché essa non è proprio mai nata, né è affiorata dal nostro rimosso coloniale. Si è deciso semplicemente di metterla sotto il tappeto a tempo indeterminato, nella poco lungimirante attesa che si ingigantisca e diventi inevitabilmente ingestibile. Sempre più afroamericani e in generale sempre più extracomunitari vivono in Italia, contribuendo in misura decisiva al nostro Pil, pagando le tasse e incrementando il nostro altrimenti bassissimo tasso di natalità. Eppure, essi sono tollerati solo finché accettano umilmente lo stigma di inferiorità che gli è stato cucito addosso, l’apartheid informale in cui sono stati relegati, la ghettizzazione silenziosa ma brutale che sempre meno, con l’accrescersi della loro coscienza di lavoratori e di cittadini, potranno sopportare di buon grado.
L’odiosa concezione italiana della tolleranza e dell’accoglienza si fonda dunque sul seguente pactum subiectionis: «A tal punto non siamo razzisti che addirittura vi concediamo di essere ospiti qui da noi, ma solo ad alcune condizioni: innanzitutto dovete testare la vostra motivazione e sfoltirvi affogando nel Mediterraneo; poi, una volta arrivati in Italia, dovete dimostrare di saper stare al vostro posto: farvi rinchiudere nelle gabbie dei CPT, dei CIE e dei CPR; lavorare nei campi per tre euro all’ora sotto la sferza dei caporali; segregarvi nelle baraccopoli e nei quartieri dormitorio; farvi ammazzare a fucilate come Soumaila Sacko a Rosarno o farvi sparare addosso da suprematisti avvolti nella bandiera tricolore, come a Macerata; persino quando siete ricchi e famosi, incassare in silenzio gli ululati razzisti e le banane negli stadi. Se accetterete tutto questo con mitezza, come fanno i cani col padrone, sarete i benvenuti».
Se però i beneficiari dell’infinita munificenza italiana provano ad alzare la testa esigendo la cessazione della subalternità psicologica e culturale, un salario adeguato, condizioni lavorative e abitative degne di un essere umano, magari addirittura lo ius soli perché vivono in Italia da trentanni anni, immediatamente anche il liberale più convinto getta la maschera di urbanità democratica, digrigna i denti e comincia a ringhiare. Non appena il privilegio bianco viene messo in discussione, anche solo per un istante, anche solo simbolicamente, l’aplomb garbato e politically correct dei sepolcri imbiancati della nostra industria culturale lascia il posto al fez coloniale; alla rivendicazione del sacrosanto diritto di tenere (anche solo metaforicamente) lo stivale sul collo del negro inferiore; ai salti mortali retorici pur di giustificare uno stupro etnico in Eritrea (e non a caso oggi siamo campioni mondiali di turismo sessuale con le minorenni thailandesi, cubane o keniane); alle grasse risate quando un premier, con battuta irresistibile, dice a Obama che è abbronzato.
È tutta qui – credo – la ragione della feroce levata di scudi a difesa della statua di Indro Montanelli, della improvvisa convergenza di opinioni, sul tema, tra “moderati” come Ferruccio De Bortoli, Enrico Mentana e Beppe Severgnini e conservatori dichiarati come Alessandro Sallusti, Vittorio Feltri e Giorgia Meloni. Nella figura di Montanelli, in fondo, la borghesia italiana difende compatta il suo tacito privilegio e la sua presunzione di superiorità razziale – paternalistica, solo apparentemente bonaria e ormai talmente presupposta e introiettata da essere diventata invisibile persino a lei stessa. Altrimenti sarebbe difficile spiegare come mai il Corriere della Sera online di ieri desse come prima notizia l’«oltraggio» alla statua del giornalista di Fucecchio – corredata da difese d’ufficio piuttosto vergognose come quella di Giangiacomo Schiavi – e solo più in basso scrivesse dell’uccisione di un uomo in carne ed ossa, il 27enne afroamericano Rayshard Brooks, da parte della polizia di Atlanta.
Senza entrare nel merito della querelle statua sì-statua no – di per sé importante ma onestamente resa poco appassionante dalla consueta banalizzazione e strumentalizzazione con cui è stata affrontata in Italia –bisognerà forse riconoscere che chi fa le barricate per Montanelli sta difendendo a spada tratta un intellettuale che, non solo con le sue azioni di giovane comandante fascista, ma anche con i suoi interventi pubblici e con i suoi scritti più maturi, ha sempre ritenuto legittimi il madamato, la compravendita e lo stupro di Destà, una dodicenne eritrea infibulata, la preoccupazione per la «salvaguardia biologica della razza bianca» (come scriveva lui stesso su L’Europeo nel 1962).
Nel celebre dibattito televisivo del 1969 in cui viene incalzato dalla femminista Elvira Banotti, ma anche in uno spregevole articolo del 2000 dove paragona il contratto stipulato per avere Destà a «una specie di leasing, cioè di uso a termine», Montanelli giustifica le sue gesta giovanili spiegando che «in Africa era un’altra cosa» e che un po’ tutti, inebriati dall’avventura coloniale, facevano così: un’argomentazione palesemente falsa, che i sepolcri imbiancati di oggi continuano a ripetere in malafede col pretesto di «contestualizzare» e di «storicizzare». In realtà, com’è stato ampiamente ricordato, il madamato fu fortemente contestato già in epoca fascista, ad esempio dalla chiesa cattolica concordataria e dal governatore di Eritrea Ferdinando Martini, prima di essere abolito dal regime stesso, nel 1937, al poco nobile scopo di tutelare la purezza della razza.
Forse, dunque, sarebbe ora di ammettere che la questione non è tanto il futuro di una brutta statua che esiste solo dal 2004 e che probabilmente il Comune di Milano non avrebbe mai dovuto erigere; il vero punto è che i difensori dogmatici di Montanelli stanno in realtà difendendo sé stessi, il posto che ritengono di meritare nel mondo, la propria visione ossificata della storia, le proprie opinioni retrive, con cui non hanno mai fatto i conti né intendono cominciare a farli. Indro Montanelli è la perfetta epitome di una borghesia, quella italiana, solo apparentemente rispettabile e democratica, le cui relazioni psicologiche e politiche con il fascismo, il razzismo, lo sfruttamento schiavile dissimulato, il patriarcato machista, l’omofobia, sono rimaste in realtà sempre saldissime e tornano violentemente a manifestarsi ogniqualvolta essa sente minacciato il proprio privilegio.
Così, mentre in America si moltiplicano le zone autonome e in Francia e in Inghilterra le piazze ribollono, noi ci accapigliamo su una statua ed emettiamo giudizi disinformati e sprezzanti sulle rivolte degli altri perché, gattopardescamente, il nostro establishment e il suo ignaro séguito popolare sperano che «tutto rimanga com’è». E certo che, al di là della retorica degli italiani brava gente, di cose da cambiare ce ne sarebbero: nei ghetti di casa nostra, ad esempio a Borgo Mezzanone, Foggia, Mohammed Ben Ali può morire a 37 anni, arso vivo nella sua baracca. Gli osceni decreti sicurezza dell’era Salvini-Toninelli sono ancora in vigore. Gli accordi coi torturatori libici stipulati dal Pd di Minniti continuano a essere la nostra soluzione principe per regolare i flussi migratori. Lo ius soli giace sepolto in un cassetto. L’idea di ripopolare l’Italia interna sul modello Riace, in questi giorni riabilitato dal Consiglio di Stato dopo gli attacchi squadristi del 2018 a Mimmo Lucano, è stata uccisa nella culla. Ai migranti che arrivano in Italia non vengono garantiti né corsi di lingua né, in caso di bisogno, assistenza psicologica. I caporali e gli sfruttatori spadroneggiano nelle nostre campagne e nelle nostre fabbriche: una piaga, questa, che affligge democraticamente bianchi e neri, italiani e stranieri, purché costretti dal ricatto del bisogno.
In queste sacche di miseria e di esclusione si ripropone sotto altre forme, per chi vuole vederla, una dinamica socioeconomica non troppo lontana da quella all’opera nell’America di George Floyd, della pandemia e della virulenta crisi economica che ne è conseguita: lì negli States, complice uno dei peggiori presidenti della storia americana, subalternità razziale e subalternità materiale si sono intrecciate e vicendevolmente accresciute, generando una potente miscela esplosiva. Solo che, mentre negli Usa questa miscela ha finito per coinvolgere nelle proteste anche bianchi e latinos determinando di fatto un passaggio dal Black Lives Matter a un più trasversale Invisible Lives Matter, gli italiani impoveriti e arrabbiati continuano invece a girarsi dall’altra parte quando un bracciante senegalese brucia in Capitanata o un maliano viene ammazzato nella Piana di Gioia Tauro e, anziché con i ragazzi di Soumahoro, visti ancora come quelli che «ci rubano il lavoro», quasi sempre preferiscono scendere in piazza per sbraitare insieme ai gilet arancioni o per lustrare la statua di un razzista defunto.
E così, come spesso accade dalle nostre parti, anche nel caso Montanelli non ci resta che dibattere artificiosamente del dito dimenticando la gigantesca luna che nasconde dietro di sé. Ci scervelliamo sul destino della statua – andrebbe conservata, ridipinta di rosa, spostata in un museo, abbattuta? – quando invece forse andrebbe abbattuto e ricostruito da zero un paese ancora intriso di fascismo, di violenza patriarcale e postcoloniale, di caporalato mafioso, di corporativismo diffuso a ogni livello della vita produttiva e culturale. Mentre tergiversiamo ancora un poco, ogni liberale italiano, ogni maschio bianco, possibilmente benestante, eterosessuale e interessato a conservare lo status quo, può allegramente fare suo il motto: «Il politically correct sopra di di me, Indro Montanelli dentro di me».