Latouche alleato di Papa Francesco
La domanda che sorge dopo l’agile lettura del libriccino di Serge Latouche, il “padre” della decrescita, è: serviva scriverne un altro? C’è come l’impressione di una certa sciattezza stilistica e, soprattutto, di un rapsodismo argomentativo, oltre a quella di leggere cose oramai masticate e digerite. E c’è, soprattutto, una sorta di contraddizione di cui l’autore non sembra del tutto consapevole, quasi come se, nel fare i conti con la propria stessa genealogia, non volesse (non potesse) riconoscere fino in fondo i suoi debiti.
Partiamo dall’inizio. La tesi di Come reincantare il mondo. La decrescita e il sacro (Bollati-Boringhieri, 2020, pagg. 93, € 10), è la seguente: «È probabile che se si venissero a creare le condizioni oggettive per la costruzione di una società della decrescita, questa non sarebbe realizzabile senza un certo reincanto del mondo».
La premessa: la crescita, insieme al progresso, è una vera e propria religione, con le sue chiese (le banche) e i suoi paradisi (fiscali), una religione fondata non tanto su una “fede” quanto su una serie di riti che tutti officiamo inconsapevolmente. La prima parte del libro, dunque, è dedicata alla ricostruzione di tale premessa, indagando i mutui scambi tra economico e religioso sin dai tempi arcaici.
Due serissime lacune emergono in questa ricostruzione: quella di Nietzsche sul tema del debito e della colpa e, soprattutto, quella di Benjamin, il quale scriveva nel 1921: «Nel capitalismo va scorta una religione; cioè il capitalismo serve essenzialmente a soddisfare le stesse ansie, tormenti, inquietudini a cui in passato davano risposta le cosiddette religioni».
La svolta sarebbe avvenuta con la “laicizzazione” dell’atteggiamento calvinista, che ha colonizzato il pianeta attraverso la cultura illuministica, addivenendo ad una “onnimercantilizzazione del mondo” in cui il godimento individuale all’interno di un presunto ordine naturale dell’economia è il metro di tutte le cose, accompagnato dalla dismisura. Inevitabile ciò che Latouche definisce la “banalizzazione del male”: «Atti che la decenza comune considererebbe infami, dal licenziamento dei lavoratori e la rovina delle loro famiglie ai bombardamenti dei civili, passando per l’avvelenamento dell’acqua, dell’aria e della terra, sono diventati nient’altro che le conseguenze della (buona) coscienza professionale di funzionari della megamacchina tecnoeconomica».
Tutto ciò, però, è potuto accadere perché la modernità ha prodotto un “disincantamento del mondo”.
È possibile pensare un’alternativa? A questo punto (è la seconda parte del libro) Latouche apre il confronto con il pensiero cattolico, in particolare con la Caritas in veritate, che ha “resistito” per molti secoli alle sirene della “teologia del progresso” per poi scendervi a patti, da Paolo VI fino a Benedetto XVI.
Insomma, il cattolicesimo si è perfettamente integrato nella nuova megareligione planetaria della globalizzazione: «L’economicizzazione del mondo dunque può essere realizzata nel segno della carità». Sferzanti gli attacchi agli economisti (Zamagni, Bruni) teorici di questo “empio” connubio.
Una rottura radicale, pur con molte criticità, sarebbe, invece, rappresentata da Francesco e dall’enciclica Laudato sii, che invoca, pur richiamandosi gesuiticamente ai propri predecessori, un’ecologia “integrale” capace di cogliere le cause della catastrofe ecologica senza fermarsi ai sintomi, con una aspra denunzia del “totalitarismo tecnocratico”. Giusto rivendicare l’evocazione papale della decrescita all’interno dell’enciclica.
Vediamo ora la pars construens. Poiché quella della crescita è una religione bisogna spostarsi su questo piano per poter vincere la battaglia, realizzare una “conversione di massa”, anche perché solo le comunità religiose sono riuscite a rimanere fedeli a stili di vita frugali.
Ma conversione precisamente a cosa? Qui emergono tutti i limiti della proposta di Latouche, che si dichiara esplicitamente ateo, svelando in qualche modo un suo stesso peculiare “gesuitismo” o una “dissimulazione onesta”. Il punto è che il “disincantamento del mondo” è ancora nel suo sguardo e, sintomaticamente, la quasi totale assenza di una riflessione sul mondo animale nella sua opera lo dimostra.
La teoria della decrescita, che ha immensi meriti, è ancora tutta dentro uno sguardo “umanistico” e antropocentrico. E non basta appellarsi agli artisti, ai poeti, che dovrebbero essere il tramite per il “reincantamento”.
Un lapsus svela quanto fragile sia questo progetto: «Le favole dei poeti sono necessarie». No, vorremmo dire a Latouche. Non abbiamo bisogno di favole ma di altri sguardi, che richiedono altri cuori e anche altri pensieri, più radicali, più coraggiosi. Il reincantamento non può essere un gesto volontaristico, tutto di pensiero. Necessita di “intelligenza del cuore”: «L’inestinguibile siccità scorre. L’uomo è uno straniero per l’aurora. Tuttavia a perseguir la vita che non può essere ancora immaginata, ci sono volontà che fremono, bisbigli che si affronteranno e fanciulli sani e salvi che scoprono» (Char). Urge, insomma, se dobbiamo prendere sul serio Latouche, una nuova teoria della decrescita che integri lo sguardo poetico e una spiritualità non immanente quanto incarnata.
In realtà, il pensatore francese non vuole riconoscere che la decrescita è radicata ab origine nella spiritualità se è vero che i suoi maestri (invero omaggiati) sono personalità “eretiche” come Ellul, Illich, Lanza del Vasto.
In ogni caso, e questo potrebbe essere merito del libro, il mondo cattolico in particolare potrebbe iniziare a prendere sul serio la Laudato sii. Difficile, infatti, al di là della meritoria battaglia sull’acqua come bene comune trovare nel fedele “medio” reale consapevolezza ecologica (qualcuno confessa mai di aver inquinato o devastato il pezzo di mondo affidatogli?). In questo modo, Francesco (sia il poverello di Assisi sia il gesuita argentino che ne ha ripreso il nome) rischierebbe di esser solo una luminosa quanto ininfluente parentesi.
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Il disegno, come i precedenti che accompagnano i contributi di Nicola Sguera, è di Ferdinando Silvestri: laureato in fisica, ha capito da un pezzo che la sua strada è quella delle matite. Quando non disegna, divide la sua vita tra famiglia, karate e lettura.