La democrazia in America e il bisogno di anni Sessanta
Una volta ero in auto con mio padre, lamentandomi di “essere nata nell’epoca sbagliata”. Lui, che ha vissuto l’epoca meravigliosa degli anni Sessanta e Settanta, con tanto di pantaloni a zampa e viaggio a Capo Nord, mi rispose: “Meglio così, è triste vedere quella luce e poi il suo fallimento”. Oggi, molti anni dopo quella chiacchierata, credo avesse ragione. Quella felice stagione che cantò a suon di Joan Baez e Bob Dylan, che marciava contro la guerra in Vietnam, che si batteva per i diritti civili e che chiedeva un mondo migliore è andata a sbattere contro gli scogli di nuovi privilegi, di nuove fratture, di striscianti razzismi e pregiudizi. Quegli anni hanno abbattuto un sistema vecchio e bigotto, hanno compiuto passi miliari ma non sono stati in grado di mettere in cassaforte quelle conquiste e dargli piedi d’acciaio. Forse, alla fine, è solo la storia del mondo: rivoluzione-restaurazione-una nuova rivoluzione-una nuova restaurazione.
L’America di questi giorni ci sta riproponendo tutto questo. E noi a guardare dall’altra parte dell’Oceano, a gridare “Maledetti Americani!” o “Grandi gli Americani!” con ritmo schizofrenico. “L’America è un riassunto del Mondo”, dico sempre ai miei studenti: ci siamo tutti lì dentro in termini di etnia, religione, pensiero, lingua, mestieri. Ciò che odiamo negli Americani è ciò che odiamo nel mondo: le armi, il divario ricchi-poveri, la corruzione dilagante nella politica, lo strapotere del denaro, il poliziotto che ha ucciso George Floyd. Ciò che amiamo dell’America è quello che ci fa amare il mondo: la libertà, la convivenza tra elementi diversi, l’idea di Terra Promessa, i poliziotti che si inginocchiano davanti ai manifestanti. Gli Americani non esistono, gli americani siamo tutti noi.
Il sospetto che gli anni Sessanta fossero la nostra recherche du temps perdu c’era da tempo. Lo testimonia il fatto che il rimpianto di quegli anni è anche in chi è nato molto dopo. Cosa ci affascina così tanto? Il libero amore, la minigonna, il folk? No, è la speranza. Quella che è morta negli abiti firmati degli yuppies, quella che è annegata nello xanax, quella che è fallita con il dilagare del terrorismo post-11 settembre, quella che è stata violentata in un Terzo Mondo lordo di sangue. Siamo morti di speranza. Siamo tristi. Non sogna più il giovane con mille lauree che deve fare il rider per sopravvivere, non sognano più i morti nel Mediterraneo, non sognano più il ventenne che preferisce l’ISIS all’integrazione, non sognano più le masse che rinunciano a pretendere dalla politica il diritto a poter sognare. Perché sognare è una cosa concreta, non è roba da esistenzialista con la rosa in bocca: sognare permette di comprare una casa, di pagare le tasse, di conoscere, di governare meglio, sognare fa crescere alberi e pagare bollette.
Così la vecchia generazione si è adagiata sugli allori: “Diventerete tutti notai!”, gli aveva urlato Eugéne Ionesco durante il Sessantotto francese. Le nuove generazioni, invece, non hanno avuto tempo e coraggio: troppo impegnati a sopravvivere. Così, di quegli anni, il mondo ha conservato la zampa d’elefante, la minigonna, il crack e le sue conquiste sono finite nel cesso. Siamo scollacciati, non liberi.
Poi, venne la pandemia. Poi venne George Floyd. Poi venne la Crew Dragon.
L’America si è incendiata: percossa e attonita, la terra al nunzio sta. Quell’incendio è diventato del mondo intero, come se lo stessimo aspettando: ci gasa, ci galvanizza, ci fa sognare. Su YouTube le peace songs di cinquanta anni fa hanno avuto un’impennata: i giovani sono scesi in strada, al di là del loro colore e delle loro appartenenze. Il sito della NASA è quasi andato in tilt per gli accessi delle persone incantate ad osservare una nuova missione spaziale chiedendo di tornare sulla Luna: chi se ne frega di quanto costa! La Luna! Questo avviene mentre fuori c’è un virus che decima, indistintamente, che più che al colore della pelle guarda all’ assicurazione medica e al portafogli. Fuori c’è un mondo più fragile di prima, ammaccato, dove i contorni delle cose sono saltati, un mondo che ha bisogno di sperare.
Tutto, esattamente, come negli anni Sessanta.
La storia ci sta offrendo una seconda opportunità: “Tutto si decide oggi. Ora noi o risorgiamo come squadra o cederemo un centimetro alla volta” (supercit.).