Dagli Who agli Hu
Tutti conoscono gli Who, il gruppo rock britannico che a metà degli anni ‘60 guidò la seconda ondata della cosiddetta British Invasion, alla conquista di un territorio musicale precedentemente dominato dagli artisti statunitensi. Ma chi sono gli Hu? Se non li avete mai sentiti nominare e state pensando che siano una sorta di sottoprodotto asiatico, che storpia il nome di un grande marchio per venderlo a basso costo, vi sbagliate di grosso. La somiglianza fonetica dei due nomi è puramente casuale.
Gli Who approdarono nel mondo del rock con una domanda: «Chi?». Nel 2018, in Mongolia, gli Hu presentavano se stessi con una semplice risposta: «Persone» (dalla radice di хү-н, traslitterato come khü-n).
Ma cos’ hanno in comune queste due band così lontane nel tempo e nello spazio?
Sono entrambe una chiara manifestazione dell’irrequietezza dell’arte: quando una tecnica inizia a monopolizzare una determinata forma di espressione artistica, questa si ribella e cerca nuovi modi per manifestarsi.
Ad esempio, quando la fotografia cominciò ad affermarsi nel mondo dell’arte, la pittura ritrattistica e di paesaggio subì una rivoluzione: una foto era in grado di riprodurre minuziosamente la realtà tangibile, così gli artisti iniziarono a interrogarsi sul proprio ruolo; poco dopo nacque l’Impressionismo, cui seguirono il Fauvismo, il Cubismo e sintetizzazioni via, via più semplici eppure complesse, del reale.
Agli Who si attribuiscono la prima opera rock nella storia della musica contemporanea e la prima distruzione di uno strumento sul palco. Questo atto estremo, sebbene innescato da una casualità, finì per diventare l’emblema dell’insofferenza del rock verso il consumismo e gli schemi predefiniti.
In un mondo dominato dalla lingua inglese, gli Hu hanno scelto di esprimersi nella propria lingua madre, a rischio di non essere capiti. Si sono ritagliati uno spazio nel panorama musicale internazionale, riscoprendo le proprie radici culturali e strumenti tradizionali quasi perduti.
È impossibile imbrigliare l’arte. Il famoso pittore Pablo Picasso scelse deliberatamente di disimparare i canoni in voga nella sua epoca per scoprire qualcosa di nuovo attraverso l’antico. Un ritorno a figure geometriche semplici: il tridimensionale nel bidimensionale.
Tra i generi musicali che portarono alla nascita del rock, vi era anche la cosiddetta musica folk. Oggi assistiamo a un ritorno alle origini, con gruppi come gli Steve ‘n’ Seagulls, nonché a continue forme di sperimentazione. Ad esempio, gli Apocalyptica sono riusciti a utilizzare nel metal strumenti precedentemente ritenuti appannaggio della musica classica.
Anche gli Hu possono essere inquadrati nel genere folk rock, ma è un’etichetta che non sembra piacergli particolarmente. Loro definiscono il proprio stile musicale come Hunnu rock. Infatti, ciò che rende ancora più straordinari gli Hu è la loro capacità di proporre e far apprezzare al mondo le meravigliose atmosfere della Mongolia. Un ritmo coinvolgente proietta l’ascoltatore in un’altra dimensione, facendolo cavalcare in canzoni come Wolf Totem, o Yuve Yuve Yu: non è un caso se diversi artisti internazionali stanno contattando la band per chiedere delle collaborazioni.
Insomma, gli Hu hanno un merito culturale immenso. Nel 2019 gli è stato riconosciuto il premio Ordine di Gengis Khan per aver portato un po’ di Mongolia nel mondo. Se ancora non li conoscete, vi invitiamo ad ascoltarli. Buon viaggio!