Christo e la Land Art
Dopo poco più di dieci anni dalla morte della sua sodale Jeanne-Claude nel 2009, anche Christo si è spento lo scorso 30 maggio, all’età di 84 anni.
La morte dell’artista bulgaro, classe 1935, non arresterà però il progetto dell’impacchettamento dell’Arc de Triomphe di Parigi – nato addirittura nel 1962 – già previsto per l’autunno 2020 e poi, a causa della pandemia, posticipato a settembre 2021. Una notizia, questa, che stimola alcune riflessioni sulla ricerca e i procedimenti artistici del duo.
Quella di Christo e Jeanne-Claude è infatti fin dagli anni Sessanta una attività segnata da un complesso e tortuoso percorso, di cui l’effettiva messa in opera dei lavori diventa solo la punta dell’iceberg di un processo partito anni prima.
I due artisti sono ormai celebri per l’impacchettamento di grandi monumenti dal valore storico-simbolico (dalla Kunsthalle di Berna alla romana Porta Pinciana, dallo storico Pont Neuf di Parigi al Reichstag di Berlino) o per interventi con tessuti in luoghi scenografici nel paesaggio (Valley Curtain, un’enorme tenda fra le Montagne Rocciose in Colorado; Wrapped Coast, un tratto di costa australiana impacchettato in oltre 92 mila metri quadri di tessuto o The Floating Pears, la passerella galleggiante sul lago d’Iseo, installata nel 2016).
Risulta evidente come l’enorme lavoro del duo non coincidesse esclusivamente col montaggio dell’opera, quanto col doppio binario della progettazione (sempre complessa e affascinante, ricostruibile nelle decine di schizzi, modelli, prove di materiali e di colori, che si porta dietro) e l’altrettanto sfiancante lavoro diplomatico e burocratico per ottenere i permessi necessari. Dal punto di vista economico, inoltre, le loro opere sono nate spesso proprio dall’esposizione e dalla vendita dei progetti, conservati oggi in musei e collezioni di tutto il mondo. Non stupisce dunque che, anche a seguito della notizia della morte di Christo, non si sia arrestato quel progetto parigino a cui l’artista, con tutto il suo staff, stava lavorando ormai da alcuni anni.
Per quanto riguarda, invece, il gigantismo insito nei lavori più scenografici di Christo e Jeanne-Claude, esso partiva da un terreno concreto, in scala ridotta. Vicine negli anni ’60 al gruppo francese del Nouveau Réalisme, teorizzato da Pierre Restany, le prime opere prevedevano l’impacchettamento di oggetti più piccoli, riviste e bottiglie, in un tentativo di tenere assieme l’interesse per la produzione seriale e la comunicazione di massa (comune in quegli anni al linguaggio più propriamente Pop) con la matrice surrealista di opere come L’enigma di Isidore Ducasse del 1920, in cui Man Ray aveva strizzato l’occhio al Conte di Lautréamont ricoprendo di tessuto e spago una macchina da cucire.
Ed è proprio questa dichiarata radice tutta europea, legata a un preciso atteggiamento nei confronti anche delle opere più grandi e ambiziose, a condurci al secondo punto: la problematica inclusione dei loro lavori all’interno del gruppo della Land Art.
Nei titoli dei giornali e in numerose fonti sul web è risultato immediato associare al nome di Christo – anche nei rilanci che ne annunciavano la scomparsa – a quel movimento importante e complesso, nato anch’esso alla fine degli anni ’60 negli Stati Uniti.
Intendiamoci, oggi l’etichetta “Land Art” si usa impropriamente nell’indicare immagini e forme tra le più diverse.
In senso proprio, però, all’interno della storia dell’arte del XX secolo la Land Art ha un percorso e uno sviluppo abbastanza precisi: una matrice espressiva che affonda nelle pure forme minimal, declinata ora su scala ambientale, anche in polemica (siamo negli anni Sessanta) verso le forme tradizionali della scultura e della galleria come istituzione nel sistema economico dell’arte contemporanea.
L’omonimo film di Gerry Schum del 1969, insieme ai lavori estremamente ambiziosi di artisti come Michael Heizer (il Double Negative nel deserto del Nevada), Robert Smithson (la celebre Spiral Jetty nel Grande Lago Salato nello Utah) o Walter De Maria (Lightning Field, un’installazione di pali metallici che attirano i fulmini nel deserto del New Mexico) spingono artisticamente e mediaticamente la Land Art verso una fama precoce in tutto il mondo.
Christo e Jeanne-Claude, in questa congrega di artisti americani, hanno sempre occupato un posto abbastanza autonomo, insieme ad altri europei come Richard Long o Hamish Fulton. Non tanto per una questione espressiva (le ricerche sull’entropia e il degrado di Smithson potrebbero in qualche modo accostarsi alla durata effimera delle opere del duo), quanto piuttosto per la scelta esatta dei luoghi in cui intervenire.
Se un punto comune degli earthworks americani era la scelta di spazi isolati, paesaggi desertici, abbandonati o degradati, lontani il più possibile dalla civiltà e dalla frenesia della metropoli contemporanea, Christo e Jeanne-Claude – nonostante alcuni lavori siano effettivamente pensati per luoghi desertici – hanno spesso anteposto la storia, il valore culturale dell’edificio da impacchettare, in quel profondo processo di “esteticizzazione della realtà” (per usare le parole di un altro grande nome dell’arte contemporanea recentemente scomparso, il critico Germano Celant) nato fin dai primi impacchettamenti “novorealisti” in scala ridotta.
Infine la durata: le incisioni giganti, i bulldozer che smuovono terra e pietre nelle operazioni di un Michael Heizer, si inserivano in un più generale atteggiamento “americano” di colonizzazione e antropizzazione dello spazio vergine. Quanto di più distante dall’atteggiamento di Christo e Jeanne-Claude, la cui formazione europea emerge tanto nella scelta di monumenti storici da impacchettare quanto nell’attenzione alla durata ridotta dell’installazione e al riciclo dei materiali impiegati dopo lo smontaggio dell’opera.
Insomma, con Christo se ne va una delle ricerche più affascinanti dell’arte del secondo Novecento, un lavoro – nonostante la sua vita effimera – di cui rimangono centinaia di progetti e altrettante immagini, accanto all’esperienza di chi quelle opere le ha vissute, camminandoci sopra, immergendosi e vivendole col proprio corpo, non solo con gli occhi.