American horror story
La tensione sociale negli Stati Uniti d’America cresce di ora in ora, con proteste ormai diffuse in ogni angolo del paese. Da Minneapolis a Denver, da New York a Los Angeles, le notti americane bruciano fuori controllo. E probabilmente è inevitabile che il fuoco si alimenti se l’Ordine è nelle mani di quel tipo di polizia.
Trump minaccia l’uso della forza. Gran paradosso, tutto americano. Perché diciamoci la verità, ciò che è accaduto non è propriamente la conseguenza di un uso della dolcezza, anzi, in realtà la protesta popolare che è scaturita dall’omicidio di George Floyd per mano della polizia è sistematica, si palesa costantemente almeno da un secolo e mezzo.
E tale protesta non è esclusivamente una “protesta nera”, un dissenso unicamente al cioccolato. È una imprescindibile ed indispensabile levata di scudi a cui stanno partecipando anche la panna, il pistacchio, la banana e la fragola. Dunque, evidentemente, le manifestazioni non sono questione di colore. L’universale e sacrosanto diritto al conflitto è without colors, un po’ come la pellicola di David Wark Griffith, che quelli come gli ex studenti di facoltà definite “Scienze delle Merendine” hanno studiato nel corso di Storia del Cinema. Parliamo di “The Birth of a Nation”, che a quanto pare, e purtroppo, mi torna utile in questo momento.
Il punto cruciale e più critico del film risiede nella tesi secondo la quale il Ku Klux Klan sarebbe nato per imporre l’ordine in un Sud “messo in pericolo” dai suoi “incontrollabili” cittadini neri. Il film attirò numerose proteste, scoppiarono rivolte ovunque e venne vietato in molte città, tra cui Minneapolis. Questa visione del “nero incontrollabile” era diffusa allora ed è diffusa ancora oggi.
“I neri sono ingenui come bambini e sotto molti aspetti hanno un intelletto simile a quello dei bambini” e “dare ai neri il diritto di voto è stato un crimine contro la civiltà” sono espressioni abominevoli. Ma, a quanto pare, strisciano, e nemmeno tanto silentemente, in una grossa fetta di popolazione color mozzarella di bufala.
Il mondo ribaltato del “White Power ” è una colata di devianza che sta acquisendo sempre più vigore, e come il petrolio in mare, si espande sempre più. I dati parlano chiaro: lo scorso anno contava su oltre 1000 siti on line e più di 1150 gruppi razzisti che indottrinano e addestrano per una «caccia al nero», per la «sopravvivenza della razza bianca» a discapito di afroamericani, ispanici, arabi, ebrei e ogni tanto anche gente da Roma in giù. Una roba incredibile che nel migliore dei casi, nella maggioranza dell’umanità (civile), suscita la reazione “F4” di Boris.
Il Darwinismo sociale, che giustifica da troppi decenni il suprematismo bianco, il colonialismo e, sotto certi aspetti, anche “lei non sa chi sono io” o, banalmente, il privé nei locali, è questione attualissima e bisognerebbe affrontarla con una spolverata di determinazione in più soprattutto negli USA, Paese trasversalmente paradossale, in fissa con quel concetto del Destino Manifesto che lo spinge ovunque a esportare Democrazia asportando il principio di Autodeterminazione dei popoli.
In questa zona del pianeta in cui nell’attesa di un McCrispy Menù al McDrive si consuma una quantità spropositata di medicinali, dove l’umanità è organizzata a compartimenti stagni, il ghetto è spesso l’unica risultante del Melting pot . E dove vive un popolo in “perenne stato di tumulto e disordine sia fisico che mentale” ossessionato dalle armi e da quell’agglomerato irreale di pensieri ed emozioni tutte deformate che chiamano il “The American Way of Life”, un poliziotto bianco ha assassinato un afroamericano.
Le proteste per questo ennesimo omicidio a sfondo razziale, lo dicevo, stanno nascendo ovunque, non solo perché l’accaduto è inaccettabile ma anche perché tutto ciò che accade in America si ripercuote nel resto del mondo e influisce sulla nostra quotidianità: dalle decisioni della Casa Bianca all’andamento di Wall Street, dalle tecnologie della Silicon Valley ai prodotti di Hollywood.
La degenerazione a stelle e strisce è più tangibile che mai e la forbice tra un poliziotto fiero di rappresentare il precipizio dell’umanità e dei manifestanti stanchi di essere great again aumenta sempre più. Quindi, magari, la romanticizzazione posticcia alla quale siamo abituati, tipo quella del “virus che colpisce le vie respiratorie perché noi togliamo il respiro alla terra”, in questo caso evitiamola.
In “I can’t breath” non c’è nulla di romantico.