Il rancore di Sala e quello dei lombardi
Si sa, i numeri sono testardi. Li puoi diluire, li puoi rimuovere, li puoi rateizzare, li puoi torcere, ma prima o poi, quando pesano, vengono sempre a galla. Prima o poi, quando pesano, qualcuno li mette in fila, li approfondisce. E approfondendoli capita che emergano scenari inquietanti, che affiorino cose inaudite come “il ragionevole sospetto che la Lombardia aggiusti i dati sui tamponi”. Pratica che altererebbe le indagini territoriali, nonché nazionali, sulla reale diffusione del virus.
A sostenerlo è il dottor Nino Cartabellotta, presidente del Gimbe, una fondazione indipendente che monitora l’andamento dell’epidemia. Il quale ha denunciato senza mezzi termini “le troppe stranezze” perpetuate dagli organi di amministrazione della Regione Lombardia in questi ultimi tre mesi sul piano della comunicazione: alternanze e ritardi (nonché dilettantismi, ci sentiamo di aggiungere), frequenti riconteggi, mancato scorporamento di taluni indicatori numerici che, se evidenziati, avrebbero favorito una maggiore comprensione del volume del contagio.
Invero, le cifre sui tamponi con cui quotidianamente ci confrontiamo, senza i dovuti distinguo, rischiano di generare un’errata percezione dell’effettiva capacità di monitoring del fenomeno epidemico da parte delle regioni. Le quali, perlopiù, nel comunicare il dato dei tamponi eseguiti tendono ad accorpare il dato dei tamponi di controllo (riguardanti i pazienti Covid già accertati) con il dato dei tamponi diagnostici. Un modus operandi poco trasparente che rischia di far passare per sensate decisioni politiche, come l’apertura indiscriminata dei confini regionali, che potrebbero apparire improvvide una volta sviscerate le cifre oggetto di mimetizzazione.
Esempio: facendo un conteggio dei soli tamponi diagnostici effettuati ogni 100.000 abitanti regione per regione, scopriamo che la media nazionale è di 1343 e che la Lombardia, in cui si registrano quasi la metà dei morti d’Italia per Covid-19 e in cui negli ultimi giorni si sono registrati i due terzi dell’intero contagio peninsulare, ha una media di 1608. Per intenderci, la Basilicata che ha 416 casi confermati (lo 0,17% del totale nazionale) effettua in media 2500 tamponi diagnostici ogni 100.000 abitanti, quasi il doppio di quelli effettuati in media dalla Lombardia, che ha 88.183 casi confermati, ossia il 38% del totale nazionale. E mentre in Basilicata, nel periodo compreso dal 4 al 27 maggio, la percentuale di tamponi diagnostici positivi risulta dello 0,1%, in Lombardia risulta del 6%, a fronte di una media nazionale del 2,4%.
Questo per dire che gli uomini simbolo del Pirellone possono offendersi e querelare quanto vogliono, ma è evidente che un’esecuzione limitata dei tamponi diagnostici riduce il numero dei positivi rilevabili, il che, guarda caso, va a falsare anche il celebre indice Rt – mirabilmente illustrato dall’assessore Gallera – che serve a monitorare la trasmissione del contagio. E un indice Rt orientato ottimisticamente non costituisce un dettaglio, perché può influire sulle imminenti decisioni politiche del governo centrale in merito al tema delle riaperture. Un tema sul quale il dottor Cartabellotta suggerirebbe cautela, poiché “la coincidenza di controllore e controllato può determinare comportamenti di tipo opportunistico”.
Tuttavia, il punto è che, a prescindere da qualsiasi ipotesi dietrologica, i dati forniti dalla fondazione Gimbe dimostrano come la curva epidemica lombarda non sia debitamente sotto controllo, così come quella ligure e quella piemontese. Fatti di cui non si può non tener conto in sede decisionale. Fatti che rendono più che comprensibile l’apprensione di alcuni governatori, vedi Solinas, restii al cospetto di una mobilità indiscriminata tra le regioni e che rendono, al contempo, abbastanza incomprensibili le reazioni di alcuni sindaci, vedi l’irredimibile Sala (quello dei fotografatissimi aperitivi nel centro di Milano in piena pandemia), che si permettono di rancoreggiare a cazzo. Come se le preoccupazioni di chi amministra un territorio per la salute dei propri cittadini obbedissero a improvvise idiosincrasie nei confronti dei lombardi, dei piemontesi o dei liguri, e non alla volontà di evitare una strage a causa di un sistema sanitario debole. Oppure, come se il rovello dei lombardi, dei piemontesi e dei liguri, con questi chiari di luna, fosse l’organizzazione delle vacanze in Sardegna. Oppure, come se il governatore della Sardegna, ovviamente consapevole del fisiologico calo del turismo che si verificherà nel corso della prossima stagione estiva (c’è chi stima del 50% e parliamo di una regione per la quale il turismo è linfa vitale), non avesse considerato la prospettiva di un calo ancor più drammatico del flusso turistico in concomitanza di un’eventuale esplosione del contagio sull’isola.
Ebbene, chissà se il saliano “Ce ne ricorderemo…” farà proseliti o se seguirà il glorioso percorso del suo progenitore “Milano non si ferma”. La sensazione, assolutamente prematura, per carità, è che i lombardi ricorderanno ben altro di questo turbinoso periodo epidemico.