Trump dietro le quinte della politica petrolifera dell’Arabia Saudita
Buongiorno, il trionfalismo è servito
Erano le 10 del mattino di martedì 12 maggio a Washington e il Presidente Trump aveva già twittato «American people are warriors» e «Transition to greatness», nuovo mantra presidenziale.
Il trionfalismo incoraggiante trumpiano esplodeva poco dopo per annunciare il rialzo dei prezzi del petrolio essenziale alla sopravvivenza dell’industria americana dello shale oil (come abbiamo già illustrato su questo magazine): “le nostre grandi compagnie energetiche, con milioni di posti di lavoro, iniziano a tornare in forma. Al contempo i prezzi alla pompa segnano prezzi bassi record. E questo vale quanto un bel taglio delle tasse. Siamo i migliori del mondo“.
L’Arabia Saudita ai minimi di estrazione
Il giorno prima il principe ereditario saudita a Mohammed bin Salman aveva annunciato il taglio unilaterale della produzione di greggio di un milione di barili. La sofferta decisione fa seguito ad altri cospicui tagli operati ad aprile, nell’ambito degli ardui accordi del traballante cartello dell’Opec+.
L’Arabia Saudita a questo punto dovrebbe attestare la produzione sui sette milioni di barili al giorno, il minimo degli ultimi vent’anni. Si tratta, secondo alcuni, del tentativo quasi disperato di indurre a ulteriori tagli anche gli altri paesi produttori dell’area del golfo, esibendo un gesto di buona volontà.
Questa ulteriore contrazione della produzione provocherà una presumibile perdita di quote di mercato per i sauditi, in aree tradizionalmente irrorate dal loro petrolio.
I prezzi restano bassi
La crisi mondiale indotta dal coronavirus ha determinato una flessione della domanda di greggio planetaria nell’ordine del 30%. Il surplus produttivo è ancora immenso. In queste condizioni il rialzo dei prezzi indotto dal taglio della produzione è modesto ed effimero. Lunedì, dopo l’annuncio saudita, il prezzo del brent è salito a 30,12 dollari, con un aumentato del 5% (fonte OilPrice.com). A fine giornata, però, il rialzo si è fortemente ridimensionato a causa del timore dei mercati di nuovi lockdown per la ripresa dei contagi.
A dispetto dei tweet trumpiani, del resto, nessuno dei principali quotidiani economici del mondo – con una isolata eccezione – dedicava un qualche significativo spazio alla notizia della decisione saudita e delle sue modeste conseguenze sui mercati. Nemmeno l’edizione asiatica del Financial Times spendeva gocce d’inchiostro sulla vicenda. Il Wall Street Journal, significativamente, dedicava, invece, mezza pagina, con richiamo in prima, alle attività degli stocchisti speculatori, in ricerca di qualsiasi pertugio nel mondo per immagazzinare petrolio comprato a basso costo da rivendere quando i prezzi risaliranno.
Conseguenze solo politiche
Insomma, la decisione saudita è meramente di natura politica e di scarso rilievo economico.
La strategia Araba, anzi, rischia di essere fallimentare, almeno in questa fase. La perdita di entrate monetarie petrolifere si somma, infatti, all’arretramento sui mercati. All’inizio della guerra petrolifera in atto, i sauditi avevano recisamente rifiutato di tagliare la produzione proprio per tentare di conservare la propria fetta della torta di produzione e vendite mondiali di greggio. Con lo stesso scopo, con i prezzi già i minimi, avevano addirittura praticato sconti ai clienti asiatici per rintuzzare l’offerta russa.
Poi i sauditi hanno cambiato registro. I ben informati vociferano a seguito delle pressioni di Trump, per il quale è insostenibile, nell’anno delle presidenziali, il fallimento dell’industria dello shale oil indotta dai bassi prezzi mondiali.
Alcune testate internazionali riportano maliziosamente la notizia di una telefonata della settimana scorsa di Trump a Mohammed bin Salman. , alludendo a una decisiva influenza USA sulla decisione araba del taglio unilaterale e volontario della produzione. Il tweet di Trump, per enfasi e immediatezza, suonerebbe quale conferma indiretta dell’indiscrezione.
Gli USA, in sostanza e in coerenza con la politica degli ultimi anni, giocano la guerra mondiale del petrolio con esclusivo occhio alla politica nazionale. L’esatto opposto vale per Mohamed bin Salman.
I favori al Presidente USA costano caro al principe ereditario, sul fronte interno. L’Arabia Saudita con gli attuali prezzi non riesce, infatti, sostenere il proprio bilancio, pesantemente condizionato dalle politiche di rinnovamento volute da bin Salman. Il coronavirus, inoltre, ha determinato una contrazione delle entrate derivanti dai pellegrinaggi alla città sante della Mecca e di Medina, ora chiuse ai visitatori.
Il costosissimo ed epocale programma per la diversificazione del sistema produttivo e l’emancipazione dalle entrate petrolifere deve essere rivisto e riprogrammato di almeno dieci anni. Nell’immediato, poi, sono state adottate misure draconiane come la triplicazione dell’aliquota IVA dal 5 al 15%. Al vaglio ci sono, inoltre, cospicui tagli di spesa in settori (sanità e istruzione) di cui il principe ereditario aveva fatto fiore all’occhiello del suo governo, per altro contrastato dai membri della famiglia reale e non solo.
L’Arabia Saudità non rischia il default. Proseguono gli arresti.
L’Arabia Saudita, come la Russia, sta nella guerra petrolifera per giocare una partita geopolitica e di mercato. Per questi obiettivi, come la Russia, è disposta ad affrontare costi immensi e a mettere in campo le faraoniche riserve monetarie. Le tensioni temporanee, seppur fortissime, per questo non mettono in discussione la solvibilità del regno ma determinano significative scosse di politica interna. Bin Salman reagisce come sempre ha fatto sin’ora, facendo arrestare esponenti della sterminata famiglia reale insoddisfatti della sua investitura e dunque potenziali avversari e oppositori.