Amila confinata e i tamponi spariti nella città delle moltitudini
Il 21 marzo, a causa del coronavirus, a Sarajevo è stato imposto il coprifuoco: l’ultima volta era il 21 dicembre del 1996 e si stavano spegnendo gli ultimi focolai di guerra.
Mentre Amila viveva la guerra da un campo profughi, il parlamento bosniaco andava in fiamme (immagini che, trasmesse successivamente in un servizio di telegiornale, si sono sedimentate nella mia memoria di bambino). Lei è stata fortunata a lasciare Sarajevo prima che fosse troppo tardi. Oggi ha 33 anni e lavora in Repubblica Ceca. È tornata in città per vedere la sua famiglia il 12 marzo, ma in serata il governo ha sigillato i confini nazionali. Nessuno se l’aspettava, mi dice.
La prima reazione all’imposizione delle misure restrittive è stata di terrore e incredulità. Lo spettro infame della guerra fratricida è ancora ben presente nella memoria della sua famiglia e aleggia fra le vie deserte di Sarajevo. Il padre, che ha difeso la città durante l’assedio, sa benissimo che bisogna essere pronti, prepararsi psicologicamente a combattere. Ma questa, con buona pace di chi vuole convincerci del contrario, non è una guerra. Neanche a Sarajevo.
E, in effetti, la popolazione si è abituata rapidamente al nuovo stile di vita: al distanziamento sociale, all’obbligo di portare guanti e mascherine in strada, ai mezzi della polizia che sparano a tutto volume messaggi intimidatori. Si rispettano le regole e si cercano nuovi modi di socializzare, nonostante il coprifuoco dalle 20 di sera alle 5 di mattina. La solita capacità di adattamento dei sarajevesi, che neanche durante l’assedio, sotto le granate serbe e con il terrore dei cecchini, hanno mai rinunciato ai concerti o al teatro.
Eppure, hanno paura, non tanto del coronavirus, quanto per la tenuta e l’organizzazione del sistema sanitario nazionale che, con 188 medici ogni 100.000 abitanti (2013), non si è mai ripreso dagli anni della guerra. Secondo l’OMS, il primo caso di contagio nel Paese è stato individuato il 5 febbraio, ma nessuna azione seria è stata intrapresa per prepararsi all’arrivo della pandemia.
Inoltre, la crisi mette a dura prova il complicato sistema di governo nato nel 1995 a Dayton ed acuisce le tensioni etniche mai completamente sopitesi da quando il germe del nazionalismo è stato piantato. Ad esempio, la vicepresidente della protezione civile, membro del partito dei croato-bosniaci, è stata accusata di aver bloccato la spedizione di 150.000 tamponi destinati a Sarajevo per inviarli in Erzegovina, dove la maggioranza della popolazione è croata. L’intervento della diplomazia estera ha permesso di sbloccare la situazione, ma il materiale sanitario è ancora disperso. Intanto, la preoccupazione principale del governo è di sgomberare le strade dai profughi che sono tornati ad affollare la rotta balcanica.
Sarajevo è vasta, contiene moltitudini (Walt Whitman). A partire dalla toponomastica, il suo nome è una slavizzazione della parola turca Saraj (serragglio, palazzo). Comincia nella Bascarsija, di origine ottomana e centro focale della città vecchia, e finisce a Grbavica, Ilizda e Lukavica, quartieri-dormitorio di architettura socialista con i loro palazzoni di cemento armato che ancora portano i segni dei combattimenti. Le moschee si alternano alle chiese cattoliche e ortodosse, alla sinagoga costruita dagli ebrei sefarditi che qui, sotto la dominazione ottomana, trovarono rifugio dagli eccidi della cristianissima reconquista spagnola. A legare il tutto, enormi distese di lapidi bianche ricoprono le colline che abbracciano la città nata nella valle del fiume Miljacka.
Quella che una volta era il simbolo della fratellanza, dell’unione dei popoli slavi del sud, la città con il tasso più alto di matrimoni misti della Federazione Jugoslava, oggi è una città formalmente divisa. Una sottile linea di lacrime e sangue divide la parte federata croato-musulmana da Istocno Sarajevo (Sarajevo Est), appartenente alla entità serba della Bosnia, la Republika Srpska. Gli autobus da Belgrado arrivano qui, in un parcheggio di Lukavica, quelli da Zagabria alla stazione centrale. Non un muro di cemento, non una barricata, ma un confine invisibile, eppure chiarissimo, identifica le persone come appartenenti all’una o all’altra parte. Si staglia altissimo nella memoria collettiva degli abitanti della città, segnata da guerra e pulizia etnica. Se siamo sopravvissuti alla guerra di 28 anni fa, sopravvivremo anche a questo, mi dice Amila.