I care, la didattica ravvicinata di Don Milani
In tempi di didattica a distanza, necessaria purtroppo, e dalla durata che non sappiamo prevedere, mi è balzata in mente una delle scuole più belle che io abbia mai visitato. Ci sono finita per caso negli scampoli di qualche estate fa, ridiscendendo lungo lo Stivale, verso casa. Quei posti che ti sei sempre ripromesso di vedere ma che… alla fine non ci passi mai. Quel luogo è Barbiana, la piccola scuola fondata da don Milani negli anni Cinquanta che ancora oggi resta un esempio più unico che raro.
Don Milani era un pazzo. Un visionario. Un rivoluzionario. Così lontano da quei portatori di tonaca verso i quali non ho mai nutrito troppa simpatia. Nel dicembre del 1954 don Lorenzo Milani viene nominato Priore della chiesa di S. Andrea a Barbiana, una piccolissima parrocchia sul monte Giovi, nel territorio del comune di Vicchio del Mugello. Una sorta di confino a cui lo costrinse la Curia per il liberarsi di un sacerdote così poco ecumenico, poco amante del moralismo dei benpensanti. Niente acqua, né luce, né una strada per arrivarci, solo 42 anime.
Qui invece di fare il sacerdote scelse di farsi maestro. Così, due anni dopo, nacque la scuola di Barbiana con don Lorenzo insegnante unico con un unico libro. La sua scuola viene allestita nella canonica della chiesa togliendo il posto a tonache, incensi e sacrestia. In quel luogo spoglio, che quasi sempre sa di muffa mista a incenso in ogni parte del Mondo, don Milani appronta dei banchi, aggiunge delle piccole sedie ed i muri scrostati vengono rallegrati da disegni, scritte, progetti, lezioni e nozioni di scienza. La frase che ricorre in quella scuola piccina picciò è I care ovvero mi prendo cura, ci tengo. Gli studenti di Barbiana sono sei, sono poco più che bambini che, terminata la scuola elementare, non avrebbero altro destino se non quello di lavorare la terra. E allora don Lorenzo si inventa per loro una scuola tecnica di avviamento industriale per permettere ai figli dei montanari e dei contadini di avere un futuro diverso.
I ragazzi di Barbiana costruivano assieme al loro maestro i tavoli e le sedie, le mappe geografiche, gli scaffali, perfino i più affinati strumenti tecnici, affinché ogni pezzo di quella scuola di vita fosse ottenuto con sudore e scavasse in loro insegnamento ancor prima delle nozioni. Uno stanzone dove trovare caldo nelle mattine pallide di inverno per poi trasferirsi all’aperto con l’arrivo della primavera, al cinguettio degli uccelli, mentre il verde dei campi faceva brulicare di vita la terra tutt’intorno. Nelle due stanze attigue nasce un’officina, dove si lavora il legno, si batte il ferro e si costruiscono gli oggetti per studiare: con le nozioni apprese in officina il don e i suoi ragazzi costruiscono perfino una piscina dove rinfrescarsi durante l’afa estiva. I giorni scorrono così, dalle otto di mattina alle sette e mezzo di sera: non ci sono voti, non ci sono errori in rosso, non ci sono pagelle e non si boccia, non ci sono cattedre. I banchi messi a staffa di cavallo ed al centro il maestro, su una sedia, ad imparare in mezzo a loro.
A questi ragazzi sarebbe stato semplice vergare le menti con santi e vangeli. Don Milani, invece, scelse la Costituzione italiana come massima forma di Vangelo e di poesia: la racconta, la spiega, la snocciola. Parla loro del ripudio della guerra e di Gandhi: ed è proprio durante un dibattitto sulla nonviolenza che sceglie di parlare ai suoi ragazzi dell’importanza della scelta personale e dell’obiezione di coscienza. Una scelta didattica che gli provocherà una vera persecuzione giudiziaria che fa nascere Lettera ai giudici, l’autodifesa scritta con i suoi allievi nella quale si appiglia alla libertà personale e all’articolo 11 della Costituzione ma che gli fece guadagnare le peggiori infamie e ripugnanti epiteti come “porco prete rosso”. Ma questo non fermò don Milani, che continuò a tirare su i suoi allievi insegnando loro l’importanza del voto, della scelta, la leva dello sciopero e il suo riconoscimento costituzionale ma soprattutto “il coraggio di dire ai giovani che essi sono tutti sovrani per cui l’obbedienza non è più una virtù ma la più subdola delle tentazioni”.
A Barbiana nacque un metodo, un volto umano e intimo della didattica che ancora oggi viene studiato nel Mondo, condensato in Lettera ad una professoressa. Una denuncia alla scuola, italiana soprattutto, che non si occupa degli alunni difficili e che respinge quelli poveri fino a farli desistere dallo studio. Una scuola che deve insegnare l’anatomia come il sesso, che non deve perseguire la perfezione, che non deve far odiare la storia e la geografia, una scuola che deve battersi il petto per ogni alunno svogliato, per ogni alunno bocciato.
Don Milani se lo portò via un grande male nel giugno del 1967. Un anno dopo, la rivolta studentesca lo avrebbe accolto fra i modelli per contestare “il sistema”, proprio lui, un prete di campagna. Con lui morì l’esperimento di Barbiana e toccò ai suoi ragazzi e alla fondazione che ne porta il nome trasmetterne la memoria: oggi sono in tanti ad inerpicarsi per quel sentiero per andare a conoscere la storia quel piccolo universo rivoluzionario.
Sulla parete della scuola di Barbiana, ancora oggi, campeggia la scritta I care, il motto che don Milani prese dai giovani americani. Lo scelse perché era breve ma esaustivo, ma soprattutto perché rappresentava il contrario del motto fascista “me ne frego”.
Con la speranza di tornare presto fra i banchi.