Di cosa parlano i media quando parlano del Sud
Proliferano in queste settimane commenti ufficiali e ufficiosi su un presunto forcing mediatico a discapito del Sud. Stando alla milizia degli irritati, i principali organi di informazione nazionali tenderebbero, al netto della sciagura pandemica, a scaraventare in scioltezza collaudatissimi stereotipi nelle teste di telespettatori e lettori, casomai fossero sopraggiunti diffusi attacchi di smemoratezza acuta.
Il Mezzogiorno che tiene botta, che non collassa, deve per forza ricorrere alla menzogna (i dati sul contagio sono farlocchi perché si fanno meno tamponi), alla fortuna (se solo il coronavirus avesse esordito da Eboli in giù…) o a qualche favore soprannaturale. Incredibile che gli “indisciplinati napoletani”, per dirla con Sgarbi, stiano resistendo con semplice fortitudo animi alla tentazione di napoletaneggiare: chiamiamolo pure il miracolo del lanciafiamme.
Ebbene, non è che la milizia degli irritati sbagli di per sé nell’evidenziare il maltrattamento mediatico riservato ai meridionali alle prese con il lockdown. L’errore di fondo, piuttosto, risiede nell’interpretare la fastidiosa narrazione giornalistica di questi travagliati giorni come un accanimento, come un’escalation, come un ulteriore step discriminatorio nel corso nordcentrico degli eventi. E tale errore si spiega con facilità. Perché a essere cambiato non è tanto il comportamento “leggero” di chi racconta, declinandole al Sud, le tragiche vicende con cui stiamo prendendo, purtroppo, dimestichezza, ma il comportamento di chi ascolta.
La prospettiva emergenziale altera la soglia di tolleranza nei confronti del luogo comune, modificandone la fisionomia. Il discorso ordinario, fatto di medici calabresi che dovrebbero percepire stipendi inferiori ai colleghi settentrionali (Susanna Ceccardi, sindaco in quota Lega), fatto di feltrismi a caso o di strigliatine paternalistiche sulla poltroneria ontologica, in tempi straordinari triplica la propria odiosità: in un contesto di stress esponenziale come quello dell’isolamento collettivo, l’abitudine terronica alla subalternità, sebbene sapientemente coltivata, fatica a esprimersi e a mitigare i torti.
Per cui, quando un servizio del Tg1, anziché soffermarsi sul dramma della Lombardia che attualmente detiene quasi il 10% dei decessi per Covid-19 dell’intero pianeta, preferisce invece illustrare gli applausi dai balconi alle forze dell’ordine in un quartiere di Napoli (facendo intendere che la consuetudine prevede la sassaiola), capita che persino l’individuo più refrattario al meriodionalismo cominci a presumere che qualcosa non quadra, perché non stiamo parlando di Padania Tv o di altre emittenti post-druidiche di area leghista, ma del servizio pubblico, pagato finanche coi soldi dei meridionali. Si fosse trovata la Campania a lottare contro le terrificanti matematiche della morte con cui stanno facendo i conti in Lombardia, gli araldi mediatici dello stereotipo avrebbero cannoneggiato a oltranza, ne siamo strasicuri. Conosciamo il copione.
Insomma, senza tirarla troppo per le lunghe, diciamo che il solito storytelling italico avvezzo all’etnologia snob, che vede nel Sud il punto di intersezione tra villaggi palafitticoli e mastodontici ammassi urbani dediti alla criminalità, potrebbe aver fracassato gli zebedei, perlomeno in periodo pandemico.
A veder bene, una frantumazione testicolare più che legittima, addirittura salutare, che però si rivelerebbe infeconda se decidesse di risolversi in una acritica, nonché consolatoria, contronarrazione delle “eccellenze” (vedi il Cotugno, vedi il Pascale), come spesso accade. La parola eccellenza, anche se correttamente applicata, sa di panegirico, di vanagloria, quando intorno incombe il deserto. Ciò che serve è una costante e vigile rivendicazione della normalità. L’eccellenza è un di più.