La nuova libertà di non fare un… bel nulla
Otto milioni di controlli in 40 giorni e solo 115mila denunciati (1,45%) e 192mila sanzioni (2,41% – dati del Ministero dell’Interno sino al 16 aprile). Gli italiani amano la libertà vigilata e le autocertificazioni. È lecito dedurlo vista la pressoché unanime acquiescenza ai decreti dei Presidenti del Consiglio e delle Regioni che hanno imposto il lockdown dal nove marzo scorso.
Le strade sono semideserte o poco frequentate, persone “mascherinate” e distanziate fanno la fila fuori dalle drogherie, dalle farmacie, dai panifici. Un decina di persone davanti al supermercato paiono già folla.
La realtà, testimoniata dalle foto e dai video, oltre che dai numeri e dall’esperienza personale di ciascuno, stride, fino a confliggere, con la retorica delle strade affollate dei titoli urlanti e allarmanti di alcuni giornali. Una rappresentazione mediatica degna delle telecronache fantasticate di Fabio Caressa, i cui racconti impetuosi di un agonismo immaginato sono spietatamente contraddetti dalle immagini di corse e cuori lenti dei calciatori. Un playback asincrono.
Nel clangore mainstream sparato dai media e dai social sul silenzio spettrale delle città, annegano le voci, sparute ma stentoree per autorevolezza, dei giuristi che sollevano obiezioni di costituzionalità dei DPCM e delle ordinanze di disciplina del lockdown.
Medesima infausta sorte tocca alla schiera, senz’altro più nutrita e caciarona, dei liberali insofferenti alle misure illiberali. Adducono costoro argomentazioni diverse e diversificate, talora un po’ forzate, talaltra compiute, a volte interessate. I più sinceri appaiono provati dalla doppia pressione della limitazione delle libertà e della condiscendenza silente di massa. Si determinano così a pensare agli italiani come a un popolo di pecoroni conformisti.
Fuor di dubbio che questa sia una verità, ma parziale. È ardito sostenere che un così diffuso assentire sia solo conformismo.
Deve esserci dell’altro, qualcosa di più potente ancora della paura della malattia e dell’angoscia della perdita economica.
Non è azzardato pensare alla riconciliazione con una dimensione più spontanea dell’esistenza, a un assestamento col suo ritmo biologico, a una maggiore libertà di concentrarsi su se stessi.
Nel 1982 Francis Ford Coppola sostenne la distribuzione di Koyaanisqatsi (regia di Godfrey Reggio), un film che, attraverso un brillante montaggio e le musiche di Philip Glass, documentava il ritmo frenetico e innaturale delle società contemporanee. A distanza di 38 anni da quel film, il coronavirus e la quarantena ci hanno imposto una pausa di riflessione, un riesame e, probabilmente, una revisione, anche inconscia, di quella frenesia. Torna alla mente anche il Milan Kundera di La lentezza, la cadenza che ci permette di essere presenti a noi stessi, al nostro corpo, alle nostre riflessioni. Una scansione temporale inversa a quella della velocità, a una vita che scivola tra le azioni quotidiane come i millesimi sul cronometro di un gran premio di formula uno.
I giorni in quarantena scorrono lenti ma pieni. Anche di paure e angosce, certo, ma si sentono, umanissimamente. Siamo presenti, non trascinati dal flusso, non si ha modo di dire dire: come è volato questo tempo, era ieri che sembrava Natale. Quest’anno no, non lo si è detto. Il tempo non è volato, ci è appartenuto e anche pesato, ma non è precipitato via.
A rifletterci, in effetti, la quarantena ha portato una nuova, inattesa libertà, quella del tempo.
La vita prima della quarantena non era del tutto libera, diciamo la verità, e non lo sarà dopo, probabilmente, va pur riconosciuto. La vita era e sarà ancora, forse in minor misura, stritolata dai ritmi dello stile di vita che ci assorbe. Il tempo libero stesso, il tempo non occupato dall’impegno lavorativo o famigliare, non esisteva o era compresso da tutte le attività che esercitiamo con volontaria o inconscia coercizione. Il tempo libero era definito negli orari e nei giorni. Era obbligato, altro che libero.
Proprio ieri mi è passato sotto gli occhi un post Facebook di un ragazzo che confessava di aver scoperto di poter rinunciare senza sacrifico, con sollievo addirittura, a una serie di attività ricreative con cui si riempiva la ore fuori dal lavoro tanto per adeguarsi a uno stile, che per timore, rivelatosi senza fondamento, di non veder passare il tempo a casa.
Beninteso non è qui in analisi e tantomeno oggetto di critica quell’insieme di valori, azioni e coazioni che definiscono uno stile di vita. Ci limitiamo a porre l’occhio su quelle nuove, diverse (pur insufficienti), inattese e sottaciute libertà della quarantena.
Il distanziamento sociale, ed è ciò che soffriamo più, limita le nostre scelte. Ma queste non erano forse limitate anche prima che il coronavirus affliggesse il mondo? Certo che lo erano. Scelte contingentate dalle disponibilità economiche e di tempo. Fattori che ora pesano meno. L’economia è appiattita, il tempo è disponibile.
In quarantena, insomma, siamo anche più liberi: liberi di leggere quando vogliamo, liberi di giocare, liberi di fare i compiti con calma, liberi di dormire, liberi di non fare un cazzo. Non possiamo uscire di casa se non nei casi previsti, non possiamo uscire dalla città. È indubbio e ne soffriamo, chi più, chi meno, chi per nulla. La limitazione della libertà imposta dalla quarantena non è assoluta, però, come tende a dirsi o a sottovalutarsi.
Se è compresso il nostro spazio, è dilatato il nostro tempo.
La vita senza quarantena è libera nello spazio, ingabbiata nei tempi. Basti pensare alle ferie che non si possono liberamente determinare, dovendo essere addirittura programmate e concordate. Ferie che finiscono per essere tempi obbligati.
Certo ci sono i problemi economici, i negozi, la libertà soppressa di vendere, somministrare, produrre, lavorare. Torneranno. E con loro la quarantena del tempo umano, la gabbia dei tempi.
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