Visioni di altri tempi, di questi tempi
Stanco di starmene in quarantena ad analizzare il mio confuso stato interiore, me ne sono andato con la mente a “1984” di George Orwell. Ero sicuro che fosse la lettura del reale che potesse meglio spiegare la situazione che stiamo vivendo. Un grande sistema tecno-panoptico con il compito di supervisione verso i propri fratelli minori. Descrizione perfetta, no?
Potevo leggere direttamente il libro, ma lo avevo già fatto; potevo vedere “Orwell 1984”, il film diretto da Michael Radford, oppure guardare “Brazil” di quel pazzo di Terry Gilliam, ma li avevo già visti. Non avevo molta voglia di tornare su quei passi. Avevo bisogno di qualcosa di straniante.
Mi sono chiuso in camera a guardare una vecchia puntata del Grande Fratello, un programma che, per la tipica tendenza a trasformare la sorveglianza in intrattenimento, possiamo definire un’americanata.
Invece ci sbagliamo. Del tutto a sorpresa, ho scoperto che è un’invenzione olandese datata 1999 e, che lo sia, non è poi così strano. L’Olanda è il paese più densamente popolato d’Europa. Molti di loro hanno l’abitudine di lasciare le tende di casa aperte giorno e notte, in modo che chiunque possa osservare le loro attività quotidiane. Che questo bizzarro tratto nazionale sia un modo di ammettere che non esiste luogo in cui nascondersi?
Qualcosa, però, non mi soddisfa del tutto e non è certo l’indubitabile trash televisivo di Rocco Casalino nella Casa del Grande Fratello. Qualcosa, della situazione attuale, trascende e oltrepassa la pura metafora della video-sorveglianza.
Mi torna in mente un articolo che Aldo Grasso ha scritto per la Lettura del Corriere qualche settimana fa.
Per il noto massmediologo, le nuove tecnologie sono mezzi individuali, che non richiedono le classiche strutture dell’industria tv. È un ambiente dove ci si arrangia. E così nascono i generi della quarantena social: la cucina, il fitness, la musica ecc… Dobbiamo cominciare a parlare di domesticazione di internet?
Il Grande Fratello si è rovesciato completamente con la certezza che anche quello orwelliano lo stia facendo nella tomba. Quasi tutte le Case degli italiani ripetono le stesse dinamiche del Grande Fratello. Il confessionale del GF è la rete dove tutti siamo in diretta e, adesso, questo simulacro è debordato senza chiedere permesso.
Baudrillard disse che il desiderio di essere un clone è l’espressione definitiva della società dei simulacri, ovvero «la fantasia di poter circoscrivere l’io di qualcuno» tramite una tecnologia avanzata. La realtà virtuale, i social media, ci permettono di proiettare nel mondo perfette immagini di noi stessi. Le nostre dirette su Facebook, le nostre video-chiamate, sono iper-reali perché provengono da uno spazio e da un tempo che non siamo in grado di definire. Siamo nell’iper-nonluogo.
L’antropologo Marc Augé coniò il termine «nonluogo» per descrivere spazi che giacciono al margine della consapevolezza, ma si riferiva a spazi reali.
Un iper-nonluogo è la proiezione di una connessione illusoria in quanto anticamera di qualcos’altro. Si comporta come un morbo, una ferrea matrice di consumismo e controllo sociale che ci mantiene costantemente affamati di nuove identità, nuovi beni, nuove promesse, nuovi stili di vita, nuove versioni di noi stessi.
In questa strana nuova era, una parte significativa della popolazione esiste unicamente in funzione dello sguardo, e costituisce una risorsa di intrattenimento preconfezionato per il resto di un’umanità composta da patologici voyeur.
Lo scrittore James Ballard un giorno disse: «la deregolamentazione delle onde radio porterà a una deregolamentazione dell’immaginazione. Le persone si metteranno dietro uno schermo. Si trasformeranno nei programmi tv di se stesse. Il tubo catodico non è altro che una porzione esausta di tessuto nervoso che ha bisogno di una carica sempre più intensa». Questa carica oggi è la rete.
Ballard aveva previsto la simbiosi tra telecamere a circuito chiuso e intrattenimento televisivo, immaginando un futuro in cui i sistemi di sorveglianza sarebbero stati talmente presenti nella vita di tutti i giorni da rendere impossibile la fiducia in qualsiasi forma di visione non mediata. Il tutto avrebbe generato un serio pericolo, una minaccia per la vita stessa, come teorizzato nel racconto del 1977 “Terapia intensiva” (leggi qui il racconto; oppure, ascolta una radio-lettura su: prima parte – seconda parte).
Che titolo di straordinaria attualità. Smetto con “1984” e vado da Ballard.
In “Terapia intensiva” vengono emesse delle ordinanze che impediscono agli individui di incontrarsi di persona. Ogni tipo di comunicazione passa per gli schermi tv e la ragione di questo tipo di misure di sicurezza non viene mai chiarito.
Il narratore è un medico che visita i suoi pazienti via monitor. «Le mie nozioni di anatomia e fisiologia erano state acquisite al computer, e le tecniche più avanzate di diagnosi e chirurgia avevano eliminato qualunque necessità di contatto diretto con una malattia organica. La telecamera sonda, dotata di lenti ai raggi infrarossi e di lettori ai raggi X, rivelava molte più cose di un qualunque occhio umano. Libero dalla necessità di fare visita personalmente al mio ambulatorio, per i miei pazienti era sufficiente connettersi al mio canale».
Quando «incontra» sua moglie per la prima volta, non ha idea se si trovi «a cinque chilometri da lui o a cinquecento».
Per fare l’amore passano su un canale privato e si scambiano immagini dei loro corpi nudi. I figli nascono tramite inseminazione artificiale e vengono allevati in asili individuali.
Ballard chiarisce quali sono gli intrinseci compiti di sorveglianza e controllo della televisione già nel titolo: niente di diverso da un protocollo medico. Negli ospedali, il modo in cui un’unità di terapia intensiva preserva la privacy di un individuo e allo stesso tempo lo priva di essa, invadendone il corpo con sonde e indicatori allo scopo di tenerlo in vita, conferma la teoria di Ballard secondo la quale abbiamo inaugurato la dissoluzione del nostro io fisico.
Alla fine il protagonista decide di mettere in atto l’impensabile: riunire fisicamente i membri della propria famiglia. «L’idea insolita di incontrare mia moglie e i miei figli in carne e ossa mi era venuta in mente tre mesi prima… A quel tempo né io né nessun altro avevamo mai pensato che fosse possibile incontrarsi di persona. In realtà, esistevano ancora ordinanze tanto antiche quanto raramente invocate che lo impedivano».
Solo che nessuno riesce a concepire l’idea di allontanarsi dagli schermi, ritrovandosi così in uno stato di spaesamento estremo. Ormai allo sbaraglio, sperimentano una specie di sovraccarico di realtà. Al cospetto delle presenze fisiche degli altri, vengono sopraffatti da una furia omicida e si fanno a pezzi a vicenda con le forbici da cucina. Una telecamera domestica riprende tutto. Il narratore vuole realizzare «una ripresa completa di questo evento irripetibile», come se il massacro controllato della sua famiglia fosse «la diretta definitiva».
Oggi, più che in “1984”, la visione di Ballard si è compiuta. «Terapia intensiva» sembra la sceneggiatura della quarantena da Covid-19, una sua variante più vivida e violenta trasmessa da un universo parallelo. L’invasione dell’io fisico da parte dell’immagine è diventata parte integrante delle nostre vite, tanto che ci viene presentata come la forma di intrattenimento più intima e penetrante.